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La Danza Movimento Terapia: l’osservazione del movimento

La Danza Movimento Terapia: l’osservazione del movimento La Danza Movimento Terapia: l’osservazione del movimento e il contributo di J. Kestenberg.

La DanzaMovimentoTerapia è una disciplina specifica orientata a promuovere l’integrazione fisica, emotiva, relazionale, affettiva e psicosociale dell’individuo, per migliorarne la qualità della vita.

Alla base di questa disciplina c’è l’assunto che il movimento in sé è un linguaggio attraverso il quale l’uomo ha espresso da sempre le sue più alte aspirazioni fondamentali.

Il movimento ha una qualità che non si vede né si può usare in maniera utilitaristica, ma che si sente. (Govoni, 2004)

Il primo a teorizzare un sistema di osservazione del movimento universale fu Rudolf Laban. Tale metodologia di osservazione e di descrizione delle caratteristiche qualitative del movimento analizza gli aspetti che contribuiscono al processo motorio, ossia lo spazio, il corpo, la forma e la portata dinamica e ne studia, osserva e sperimenta le correlazioni, le connessioni, la focalizzazione spaziale, l’uso del peso, le vibrazioni del flusso, i ritmi, gli accenti, i fraseggi.

Oltre alla possibilità di poter modulare e modellare il proprio movimento, si può accedere alle memorie che in esso vi abitano, così da trovare e comprendere i toni, i significati, la forma, l’organizzazione, ma anche il fluire delle emozioni, i blocchi, i silenzi.

Il lavoro individuale in danzamovimentoterapia si basa sull’esperienza di due persone che condividono uno spazio con caratteristiche particolari, tale da consentire un clima di fiducia: all’interno di tale spazio sia il paziente sia il terapeuta possono vivere un processo di crescita e di trasformazione.

Il concetto di spazio diventa metafora di relazione e di intesa. La terapia diventa un luogo psicologico e simbolico dove il paziente trova se stesso e deve essere a sua volta incontrato.

All’interno del setting, i movimenti del corpo, le sue reazioni, i cambiamenti di ritmo, trovano ascolto da parte del danzaterapeuta, e così l’esperienza delle emozioni del movimento acquisisce un senso, e cioè ha un valore trasformativo e maturativo.

Ciò che fa della danzamovimentoterapia un veicolo per intervenire a livello psichico profondo, è il fatto che può essere ricollegata a memorie antiche, affinché possano dissolversi alcune resistenze e portare il transfert alla superficie. (Govoni, 2004)

Nella descrizione del caso tutti questi elementi diventeranno preziosi per una lettura interpretativa non solo legata a processi psichici, ma soprattutto legata alle evoluzioni dei movimenti del bambino di cui narrerò.

La risonanza interna che il bambino ha suscitato in noi è stata, soprattutto nella prima fase della terapia, dettata dai suoi movimenti particolari, carichi di significati ed energie che facevano da polo di attrazione per tutto il gruppo e ne hanno condizionato l’evoluzione.

Per comprendere meglio come il movimento si colleghi a specifiche fasi dello sviluppo psichico, e poterne quindi comprendere anche le fasi di blocco e di regressione, fondamentale è il contributo di J. Kestenberg.

La Kestenberg mise a punto il profilo di movimento Kestenberg (KMP) che si avvale sia dei fattori di movimento della teoria di Laban, sia della teoria interpretativa di Anna Freud.

Questo sistema permette di tracciare collegamenti tra la dominanza di specifici modelli motori e specifiche funzioni psicologiche. (Piccioli Weatherhogg, 1998)

Brevemente possiamo dire che nella fase neonatale i movimenti sono quelli del succhiare, dell’espandersi e del ritrarsi, seguendo i flussi di forma e di tensione.

Nella fase orale l’io corporeo è un io prensile, basato sul modello del prendere e lasciare (introiezione e proiezione).

Il ritmo passa dal flusso libero al flusso tenuto.

È il ritmo del mordere, battere, afferrare e lasciare bruscamente, del dondolio a scatti.

Il bambino in questa fase impara a distinguere la madre dall’esterno e a livello simbolico lo spazio tra la madre e il bambino diventa quello spazio potenziale, area dei fenomeni transizionali, dove può aver luogo l’esperienza creativa.( Winnicott, 1974)

Nella fase anale la meta è saper presentare gli oggetti e se stesso. I ritmi sono quelli del torcersi e dello sforzarsi. Il bambino si cimenta con la forza e con le attività del gattonare e dell’esplorare.

Nella fase anale si assiste anche alla creazione da parte del bambino di un suo oggetto transizionale. L’uso di questo oggetto aiuta il bambino a conservare il senso delle varie parti corporee e dell’integrità del suo corpo, anche quando si trova sdraiato nel lettino e sta per addormentarsi: una condizione in cui perde la sensazione di compattezza e solidità, tipica dell’immagine corporea di questa fase. ( Winnicott, 1953)

In questa fase c’è anche l’allineamento verticale del bambino che lo avvicina al mondo degli adulti.

Si rafforza la parte centrale del corpo e viene a formare un’immagine del corpo, grazie alle varie posizioni, in piedi, accucciato, seduto, diventa stabile e differenziata allo stesso tempo.

In questa fase il rapporto con la madre diviene ambivalente e il bambino è preda di forti frustrazioni che si esprimono attraverso la rabbia, l’ostinazione e la cocciutaggine.

Si passa poi alla fase uretrale, fase che può essere paragonata a quella del riavvicinamento alla madre e a quella della costanza dell’oggetto del processo di separazione-individuazione della Mahler.

I ritmi uretrali sono caratterizzati da crescita e diminuzione della tensione, il bambino sperimenta e assapora la pienezza del basso ventre, si muove in avanti, precede la madre, ma non riesce a controllare il movimento a pieno, se non quando si impongono i ritmi uretrali-sadici.

Questo ritmo è riconoscibile nei giochi via-stop, nell’aprire e chiudere rubinetti, accendere e spegnere la luce, nel gioco di sparare e spruzzare acqua.

Fondamentale in questo periodo è l’acquisizione della costanza dell’oggetto nel tempo.  Il bambino avendo fatto esperienza del tempo come uno dei fattori che governano la vita, attribuisce continuità nel tempo alle rappresentazioni di sé e dell’oggetto. Lui e la mamma hanno una storia: hanno ieri, oggi e domani. (Piccioli Weatherhogg, 1998)

 

Dott.ssa Maria Cristina Pacella

Terapia di gruppo: il lavoro dei co-terapeuti

Il gruppo: la co-terapia

Il transfert dice Jung è “uno scomodo attaccamento, una sorta di relazione adesiva”.

Jung distingue tra proiezione e traslazione, poiché chiarifica che mentre la proiezione può aver luogo tra un oggetto umano ed uno fisico, la traslazione è un processo che si verifica tra due persone. ( Jung, 1935)

Il transfert è una proiezione di contenuti inconsci involontaria, questa proiezione forma sempre un legame, una sorta di relazione dinamica tra il soggetto e l’oggetto investito, e questo ponte emozionale può essere sia positivo, sia negativo.

Il disinvestimento è possibile solo quando questi contenuti diventano coscienti e quindi elaborabili e trasformabili dalla coscienza.

Un gruppo che lavora in co-terapia con elementi presi dalla tecnica della danzamovimento terapia lavora con materiale inconscio e transferale attraverso i segnali del corpo, i movimenti del paziente, le immagini che nascono dal movimento dello stesso, come se il paziente, invece di narrare un sogno o di attivare particolari aree, rivelatrici di nuclei complessuali, lo facesse attraverso un fraseggio di movimento e non di parole o immagini oniriche. ( Starks Whitehouse, 2003)

Il paziente racconta la sua storia attraverso il corpo e il terapeuta la vive, la accoglie, la codifica attraverso le sue reazioni somatiche, percependo il movimento in sé, dando senso, prima ad un livello somatico, moto- immaginale, solo in secondo tempo verbale.

Questo perché la motilità conscia ed evoluta entra in scena in una fase evolutivamente precedente alla parola, quindi più si è vicini al movimento, più è facile che emergano materiali primitivi, non ancora trasformati dalle parole.

L’abilità del terapeuta sta nell’accogliere dentro di sé i complessi stati emozionali del paziente, usando le immagini che si formano nella mente, le danze immaginali e i contenuti affettivi, fungendo da specchio al paziente, ma nello stesso tempo è necessario separarsi da essi, per poter scoprire le forme costruttive sepolte nel transfert.

La diade terapeutica, ossia la presenza di due terapeuti, all’interno di un gruppo è quasi un sottosistema, sottosistema che si caratterizza per tanti fattori, che comprendono i ruoli istituzionali, le personalità dei membri, i ruoli assegnati dal gruppo, il setting nel quale la coppia lavora.

I pazienti gravi tendono a scindere i co-terapeuti, come conseguenza di esperienze dell’infanzia e di conseguenti sviluppi nella struttura del carattere e delle difese. (Cooper, 1976)

Come afferma Klein la presenza e la disponibilità di un altro terapeuta permette di esplorare la necessità di negare, razionalizzare e fuggire dalle proprie reazioni e fantasie, di comprendere il significato di questo tipo di comunicazioni, di determinare quale sia la reazione migliore. ( Klein, Bernard, 1998)

I terapeuti infatti possono assumere una quantità e varietà di ruoli maggiore quando conducono un gruppo, possono fornire un ventaglio di stimoli più ampio per suscitare le reazioni di transfert nei pazienti e possono collaborare tra loro ed aiutare i loro pazienti a tollerare e ad esplorare intense manifestazioni di transfert e controtransfert.

Inoltre indipendentemente dal sesso i co-terapeuti che riescono a collaborare bene forniscono un modello di relazione efficace e ben differenziata che può aiutare i pazienti a rielaborare le conseguenze residue di un sistema familiare non ben funzionante. ( Klein, Bernard, 1998)

Il gruppo è molto importante perché funge da ambiente di mantenimento, fa da contenitore sia per i pazienti, ma anche per i terapeuti, specialmente nei casi in cui le scissioni che si verificano sono forti e gli attacchi all’io e all’autostima del terapeuta  sono intensi.

La presenza del gruppo non solo mitiga, dissolve reazioni e agiti pesanti, ma la presenza sia fisica sia nelle menti dei terapeuti aiuta ad avere uno sguardo ampio e non rimanere impigliati eccessivamente negli impasse.

Il setting di gruppo permette lo sviluppo della regressione terapeutica in una situazione meglio controllata. Infatti il gruppo permette ai pazienti di venire a contatto con molteplici rappresentazioni oggettuali, consente forme di separazione e di disimpegno quando necessari, introduce una matrice di realtà data dalla presenza dell’altro.

Il gruppo contiene la rabbia primitiva, la paura e i sentimenti di frammentazione, permettendo che i pazienti non ne siano eccessivamente danneggiati, aiuta a farli emergere meglio integrati e più unitari. (Klein, Bernard, 1998).

dott.ssa Maria Cristina Pacella

I REGISTRI DI LINGUAGGIO

Una metafora ancora viva nel pensiero di Ferrari… Riflessioni

(Jan Brueghel il Giovane – Allegoria dell’udito – 1645-50 ca.)

 

ISTITUTO PSICOANALITICO DI FORMAZIONE E RICERCA

"ARMANDO B. FERRARI"

 

GRUPPO DI LAVORO

 

NICOLA FINI

MARIA CRISTINA PACELLA

ELISABETTA MUNTONI

CARLA SODDE

 

TUTOR

 

ALBERTO PANZA

Colpisce il fatto che Ferrari, nel trattare questo tema, ne sottolinei prima di tutto la sua utilità sul piano tecnico-clinico più che teorico: nell’introdurci all’argomento infatti ci dice che l’analista deve avere la conoscenza di questi registri del linguaggio, e la capacità di “parlarli” (A. Ferrari, A. Stella, L’alba del pensiero, 1998, p.139). Sembra proprio che Ferrari voglia da subito mettere uno strumento nelle mani dell’analista, come un nuovo attrezzo nella bottega di un artigiano.

Tenteremo qui un’esplorazione di questo stimolante tema partendo dalla clinica e osservando come pensare i Registri di Linguaggio possa agevolare il lavoro del terapeuta.

Apportando la sua innovazione, Ferrari conia il concetto dei Registri di Linguaggio che va a completare quello di disarmonia, attraverso cui si discosta dalla logica descrittiva appartenente alla nosografia classica che parla di morbo, patologia e di precisi quadri sintomatici…

Ma, come sottolinea Panza, il quale ci offre una lucida analisi di questo tema, “la maniera peggiore di abbordare questo enunciato è dunque quella di operare un semplicistico processo di sostituzione: tutto quello che la nosografia tradizionale descrive in termini di disturbo (sindrome, malattia) non è altro che un registro di linguaggio. In questo modo non si farebbe altro che adottare un’etichetta definitoria in sostituzione di altre.”  (A. Panza, Registri di Linguaggio, in Instabili Equilibri, p.230)

Si tratta allora di capire in cosa consista questo nuovo strumento a disposizione dell'analista – artigiano: potremmo dire che, attraverso i RDL, egli ha a disposizione un nuovo vertice prospettico da cui osservare l'assetto più o meno disarmonico dell'analizzando.

Lo studio dei RDL, in tal modo, diventa uno strumento che serve al terapeuta per orientarsi nella comprensione dei nuclei di vulnerabilità più importanti di una persona, occasionali o stabili e nella identificazione delle risorse che egli possiede per proteggersi e compensare queste vulnerabilità.

Tutto ciò non con lo scopo di correggere qualcosa di malfunzionante, ma al fine di incuriosire la persona sulla modalità presentata e costruita attraverso il suo personale e prevalente Registro di Linguaggio-Pensiero (ossessivo, fobico, delirante, persecutorio, paranoideo, schizoide, depressivo...).

 

È importante sottolineare che secondo Ferrari, il RDL in sé non é considerato un elemento di patologia di una persona, quanto piuttosto il suo uso prevalente o addirittura esclusivo: in questo consiste la vera disarmonia (A. Ferrari, A. Stella, L’alba del pensiero, 1998, p.148). 

Nel dispiegarsi della relazione analitica emerge via via come l'analizzando ricorra ad uno di questi linguaggi prevalenti come difesa e sotto la spinta di condizioni emozionali particolari, che ne richiedono la presenza. Infatti, i registri che si discostano da quello "storico naturale" possono essere considerati come linguaggi d'emergenza. (A. Ferrari, A. Stella, ibidem, p.149)

 

In questo sintetico excursus sul tema dei RDL, ricordiamo che Ferrari indica il linguaggio "storico-naturale" di ciascuno come rispondente, nella sua essenza, alle strutture psichiche dominanti dell'individuo che lo usa, se non addirittura qualificante della sua personalità. Per questo sarà possibile distinguere una coloritura strutturante di tipo delirante, fobico, paranoideo, ossessivo, ecc. anche nell'uso degli stessi linguaggi "storico-naturali", senza che ciò significhi o dimostri alcunché di disarmonico. (A. Ferrari, A. Stella, ibidem, p.149)

Tornando nella stanza-bottega dell'analista, allora egli dovrà identificare e distinguere i vari registri che emergeranno e definirne la loro funzione all'interno del setting analitico (della relazione analitica). Dovrà inoltre sintonizzarsi col registro di linguaggio privilegiato dell'analizzando per favorire l'emergere di un linguaggio storico-naturale. 

A tale proposito introduciamo una vignetta clinica.

I documenti di Giulio.

Una mattina Giulio si presenta al Centro di Salute Mentale. È un giovane alto, possente e forte, urlante nella sua pretesa di avere il denaro che gli era stato promesso. Appare subito chiaro agli operatori che lo accolgono che il paziente è francamente delirante nel suo dire e mostrare numerosi documenti che scrive oramai da giorni. Spicca la sua calligrafia molto precisa e ordinata a differenza del pensiero incoerente e ricco di contenuti megalomanici e persecutori. Per un lungo tempo racconta che sarebbe stato il responsabile di progetti della più importante azienda petrolifera Italiana e di svariate attività imprenditoriali di rilievo nel territorio, rivendicando onorificenze e "un premio" mai ricevuto. Si parla di queste sue eccezionali capacità anche nei social ed in TV e lui, con tono rivendicativo, racconta di aver fatto guadagnare cifre milionarie a numerose aziende che non gli avrebbero dimostrato alcuna riconoscenza: per questo dice di sentirsi "derubato" e colpito da continue ingiustizie.

La Dottoressa che lo accoglie tenta di sintonizzarsi con il suo bisogno di essere ri-conosciuto e accolto, osservando che quella che racconta sia la trama emotiva su cui si intreccia il suo racconto delirante. Lo invita così a leggere assieme a lei tutti i documenti sparsi sul tavolo, mostrando autentica curiosità, favorendo nel paziente l'osservazione del modo concitato e teso con cui agisce e suggerendogli modi più lenti allo scopo di raggiungere una maggiore comprensione.

Il paziente rallenta nei modi e inizia ad accettare le proposte del medico di assumere una terapia farmacologica e di valutare la possibilità di un ricovero ospedaliero come momento di cura per sé e per favorire la sua progettualità di vita di cui ha lasciato traccia nei fogli, seppure in una forma megalomanica. Con stupore il medico riflette sul fatto che non è stato necessario arrivare al contenimento fisico, precedentemente contemplato vista l'iniziale aggressività e irruenza di Giulio, ed ipotizza che ciò si sia stato possibile anche grazie alla creazione di uno spazio di apertura, espressione e riconoscimento del registro di linguaggio del paziente. Ovviamente questa azione terapeutica si è potuta esprimere anche perché la Dottoressa aveva già predisposto un argine protettivo con l'attivazione del TSO già convalidato dal Sindaco e il coinvolgimento delle forze dell'ordine e di altri operatori, pronti ad intervenire.

Quando la terapeuta ha sentito che si è aperto uno spazio relazionale tra loro, prestando attenzione a mantenersi in sintonia con il registro del paziente e con le sue modalità comunicative, ha tentato l’avvio di un dialogo sulla responsabilità di cura del paziente-analizzando, consegnando nelle sue mani il foglio contenete l'ingiunzione di TSO convalidata, proprio come lui precedentemente aveva consegnato a lei i suoi preziosi incartamenti.

È stato quello il momento in cui Giulio ha accettato liberamente e responsabilmente un confine rappresentato, in questo caso, dall’imposizione dell’autorità sanitaria. La sua libertà si è potuta paradossalmente esprimere in un evento (il TSO) che per definizione consiste nella limitazione stessa della libertà.

Nello studio di questo specifico tema, rimangono diversi aspetti della teoria di Ferrari da definire, così come d'altra parte aveva detto lui stesso, pertanto vogliamo condividere una riflessione sul fatto che, soprattutto nella sua applicazione clinica, questo tema rimane aperto, insaturo e come tale stimolante.

Seguiranno altri tre casi clinici in cui l’analista si è servito di tale strumento di osservazione.

 

La maschera di Rosa e il suo dramma.

Rosa è una donna di poco meno di 60 anni ed è una paziente che nei Servizi di Salute Mentale ha maturato una lunga storia, protrattasi da circa un ventennio. Giunge nella stanza del terapeuta con una cartella ricca di testimonianze del suo pellegrinare da uno specialista all’altro, con interventi di vari professionisti (neurologi, dermatologi, internisti…) che la rimandano tutti ad una competenza psichiatrica: viene quindi sentenziata per lei una diagnosi di Disturbo di Conversione e si tentano svariati interventi psicofarmacologici e psicoterapici, senza il risultato atteso, che è la scomparsa del sintomo.

Secondo la psichiatria quei movimenti spastici, disordinati e involontari della muscolatura del viso sarebbero la rappresentazione somatica di qualche cosa che non può accedere alla rappresentazione mentale. Gli occhi si aprono a stento e solo per qualche frazione di secondo; il viso appare vistosamente contratto ed imbruttito da smorfie della bocca, che d’improvviso si fa storta ostacolando a tratti l’eloquio. Negli anni risulta gravemente invalidata nelle sue autonomie e subisce un progressivo impoverimento del vivere.

Sarebbe peraltro stata lei stessa a svelare le origini della Conversione: come recitando un copione oramai ben noto, Rosa riferisce che tutto iniziò (benché in forma più lieve, che via via è andata peggiorando) in seguito ad un trauma: novella sposa, si trovava a casa quando ricevette una telefonata dalle forze dell’ordine che le comunicavano un terribile incidente stradale accaduto a suo marito.

Nonostante poté in seguito verificare che l’uomo non aveva riportato gravi conseguenze, lei individua quel momento come l’evento traumatico che le avrebbe cambiato per sempre la vita e il volto.

Durante i colloqui, allargando la prospettiva per non rimanere intrappolati da un campo saturo di aspetti fin troppo chiari e già conosciuti, emergono altre caratteristiche di questa donna e nella mente del terapeuta sembra delinearsi l'idea di un RDL di tipo psicotico, in cui la dimensione somatica sembra aver sostituito la dimensione psichica e nella quale emerge il "vissuto del corpo". C'è una totale presenza di un pensiero concreto somatizzato e un'assenza del significato e della rappresentazione (il pensiero corporeo sostituisce il pensiero mentale).

Sembra che la mente di questa donna non possa elaborare delle rappresentazioni o non possa raggiungere altri livelli di elaborazione, protetta dal corpo che non può far altro che segnalare qualcosa che lei non può assumersi. Rosa infatti pone nelle mani di tutti gli specialisti che incontra il suo corpo difettoso, come se non fosse suo, aspettando che qualcuno glielo possa restituire nuovo. I familiari invece, soprattutto suo marito, vengono tenuti sotto controllo e ricatto, pretendendo una stretta vicinanza, imponendo un corpo che non le concede di svolgere le più elementari attività della vita quotidiana.

Durante il protrarsi delle sedute e grazie ad una più approfondita analisi si delinea nella mente del terapeuta uno scenario ancor più complesso e chiaro. Nella verticale della paziente emerge un RDL di tipo melanconico molto grave: questa donna sembra “entrare in scena” indossando una maschera che segnala disgusto e disprezzo per il vivere, rappresentando il tema che domina tutto e tutti e cioè che “non si può vivere”. Questo spettacolo sembra segnalare il Punto d’Urgenza della donna in cui forse è racchiusa l’angoscia della solitudine (mai integrata da lei nella vita adulta), del tempo che scorre, della finitezza, della morte; angoscia per cui non ha mai potuto assumere se stessa, il suo corpo, il suo essere una donna. Tutti campi da esplorare, magari facendo ricorso alla metafora del teatro e della maschera, ma difficilmente accessibili a causa della narrazione unica e rigida che ella propone al terapeuta.

Orientandoci nel campo clinico attraverso il faro offerto dal RDL melanconico possiamo osservare che nella verticale della paziente l’Uno e il Bino si siano strettamente associati nel delineare la drammatica sinfonia che suona questa donna e con cui porta la distruzione del significato di ogni cosa. Lei occupa il mondo in questo modo, così che tutto lo spazio sia colmo di sofferenza. In questo modo controlla tutto ciò che esiste, investendo la vita di tutti con una chiara onnipotenza mascherata da impotenza. In questo gioco di potere, mascherato da impotenza, lei travolge chiunque: i familiari in primis (tesse le lodi di un marito che le è stato sempre accanto e che con spirito di sacrificio  accompagna ogni attimo del suo vivere, ridotto oramai quasi al ruolo di badante; così come apprezza i figli che amorevolmente la accudiscono e non la abbandonano), ma anche tutti i curanti che ha incontrato nella sua carriera, a cui ha sempre chiesto di risolvere un problema irrisolvibile, confermando così che “non si può vivere”. In qualsiasi relazione si trovi, uccide la Vita intesa nel senso del movimento, del pensiero, dell’apertura.

In questo caso appare chiaro ciò che diceva Ferrari sul fatto che la grave disarmonia dipenda dalla dominanza di un unico RDL: in questa donna emerge con forza l’irrigidimento su un unico e inflessibile RDL tanto che potremmo dire che il suo pensiero–linguaggio viene egemonizzato. L’Uno e il Bino appaiono saldarsi in un’unica modalità: l’espressività corporea (il suo volto) esprime disgusto, disprezzo e invivibilità; il registro della parola costruisce un pensiero che giustifica questo (il trauma subito). Il registro verbale non esprime direttamente disprezzo e odio. La grave disarmonia di questa paziente è data proprio dal fatto che tra Uno e Bino esiste un’estrema consonanza, cioè sembra essere stato annullato quel grado di dissonanza, di tensione differenziale che, come ci diceva Ferrari, è funzionale alla vita stessa del sistema. In questo caso non c’è una contrapposizione funzionale: per esempio il Bino non pone dei dubbi, nessuno riesce ad interrogare l’altro. Il Bino dovrebbe portare altri punti di vista, invece qui si saldano in un’unica prospettiva e suonano drammaticamente all’unisono.

Rosa, attraverso questa associazione consonante tra Uno e Bino porta la sua grave visione melanconica del vivere (il suo RDL) ossia l’impossibilità di vivere, desertificando tutto e attivando un controllo onnipotente su ogni cosa, rendendo gli altri un pubblico diversamente pagante di questo dramma che da anni va in scena.

Anche la relazione analitica rischia di essere completamente captata all’interno di questo gioco e l’analista vive la grande difficoltà di trovare una breccia in un sistema autoreferente e dotato di un tale livello di coerenza interna (dunque caratterizzato da un eccesso di logica, più che un difetto di logica). Forse l’unica possibilità è quella di cercare di mantenere il contatto finché non si apra un qualche spiraglio che consenta di formulare una proposizione analitica, che, come un sassolino lanciato in uno stagno, perturba le sue immobili acque e non solo… 

«Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o micro eventi, si succedono in un tempo brevissimo. Forse nemmeno ad aver tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni.

Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere.»

(Gianni Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all'arte di inventare storie, pag. 7, 1973).

 

I “ninnoli” di Barbara.

Barbara di anni 45 si presenta in consultazione ad ottobre 2016 lamentando un periodo di depressione. Colpisce molto il suo aspetto, sembra molto più in là con l’età, talvolta ha uno sguardo vuoto mentre altre volte osserva l’analista in obliquo mentre adagia il suo corpo di traverso sulla poltrona. Racconta di aver provato un senso di depressione nel corso dell’ultimo anno a causa dell’aggravamento della malattia psichiatrica del fratello e del contemporaneo peggioramento delle condizioni di salute dei genitori ormai anziani. Lamenta il fatto di essersi dovuta far carico di questa situazione e che ciò ha compromesso le sue scelte, non potendo lasciare la casa genitoriale per potersi costruire una sua vita.

Barbara parla per mesi solo e soltanto della malattia del fratello e di quanto sia stato e sia tuttora difficile accettare la sua schizofrenia.

Con pazienza l’analista aspetta che si possa aprire uno spiraglio nel tentativo di riportarla verso se stessa, cercando di costruire un ponte tra quanto detto riguardo al fratello ed emozioni, stati d’animo e pensieri che lei vive. In questo processo le difficoltà non mancano visto che Barbara continua ad attribuire tutto a suo fratello.

Nel corso del lavoro appare sempre più chiaramente la sua rigidità e il tentativo di controllo che esercita nei confronti della sua area emozionale. Il suo RDL è chiaramente ossessivo, con punte di pensieri onnipotenti alternate da vere e proprie fasi in cui prendono forma le sue paure attraverso immagini recanti improbabili eventi pericolosi e minacciosi. Spesso dice di aver paura di essere aggredita, che qualcuno per strada le faccia del male e eventi simili in cui il comune denominatore sembra il terrore di perdere il controllo. Nel suo RDL ossessivo è presente una violenta oscillazione sull’asse onnipotenza–impotenza, depressione-mania.

La relazione analitica prosegue e dopo diversi mesi racconta di aver acquistato anni prima una casa ma di non esserci mai andata ad abitare, nonostante l’avesse arredata e riempita con oggetti riportati dai suoi viaggi, risalenti al periodo che precede la malattia del fratello. Dice di aver viaggiato molto da giovane e che in ogni suo viaggio amava comprare un souvenir da mettere nella sua casa.

L’analista prova a creare un’apertura su questo tema che parla di un periodo in cui sembrano presenti tracce vitali. Spiega che ogni oggetto per lei ha un valore non materiale, ma in quanto testimone della bella esperienza vissuta e dei legami affettivi sperimentati con i suoi compagni di viaggio. Ha così costruito una “casa museo” dove ogni tanto va a “rimirare” questi oggetti in memoria di quanto vissuto. La descrizione di questo luogo suscita un’immagine nell’analista: un luogo più simile ad un cimitero che ad un museo, avvolto dal mortifero, dove la vita appare congelata. Nelle sedute a seguire l’analista accompagna Barbara in un lungo e meticoloso lavoro in cui parlano di questi “oggetti” nel tentativo di coglierne i significati.

In una recente seduta accade qualcosa di nuovo: Barbara è appena tornata da un viaggio ad Amsterdam dopo un lungo periodo in cui non andava più fuori città, esprimendo apertamente felicità. Racconta di quanto sia stata bene e di come si sia sentita libera durante il viaggio descrivendo anche che il suo rientro nella casa genitoriale avesse interrotto bruscamente quello stato: “…è come se tutto fosse sparito, tutto fosse tornato alla normalità”.

L’analista fa una proposizione metaforica a Barbara che lei sembra accogliere, permettendole di organizzare un pensiero su se stessa e sul suo funzionamento: “Sembra che lei viva di “finestre” che ogni tanto apre, ma che poi devono essere immediatamente richiuse. L’unica cosa che sembra riuscire a conservare delle esperienze vissute è il “ninnolo” che riporta dai suoi viaggi e colloca nella sua casa, che sembra più fatta di “morti” che non di esseri vivi.”

Da qual momento Barbara, che sembra aver acceso una luce nel percorso di conoscenza di sé, conferma che la sua esistenza funziona in questo modo: ogni tanto apre finestre di vita che poi richiude immediatamente, non sapendo come mai accada tutto ciò.

L’analista si allea a questo germoglio di curiosità verso se stessa dell’analizzanda e il lavoro prosegue verso un’analisi di tutte le esperienze di vita che vengono gestite con questo “schema”: relazioni sentimentali, lavorative e così via. Barbara può osservare che lei “chiude bruscamente la finestra” ed ha un motivo per farlo che esprime chiaramente quando dice: “Io non voglio soffrire, io non voglio sentire il dolore, mi difendo e quando percepisco l’eventualità di un probabile dolore, scappo prima”.

Barbara per la prima volta parla di un suo vissuto emozionale e l’analista apre uno spazio al tema del dolore.

A: “come percepisce il dolore?”

B: “lo associo al fuoco e mi viene la paura di scottarmi, perché d’istinto metterei la mano sul fuoco, ma so che mi brucerei, quindi la mano la tolgo prima, perché mi basta vedere il fuoco per non mettere proprio la mano”.

Nella mente dell’analista si prefigura l’immagine di un rogo e la sua espressione sembra esprimere l’intensità del fuoco che si raffigura.

Barbara cogliendo e interpretando tale espressione dice: “No, non è il fuoco che lei immagina dottoressa, ma il fuoco di un fiammifero. Se me ne dà uno glielo faccio vedere”.

L’analista, con un qualche perplessità prende un fiammifero da una scatola riposta su una mensola e glielo porge.

B: “Vede il fiammifero? Fa un focherello piccolo, sembra innocuo, ma se ti avvicini ti bruci. A me basta questo per scappare”.

Aggiunge: “Tutte le persone sono potenzialmente dei fuochi, tutti mi possono far soffrire, io sto lontana, posso solo ogni tanto aprire le finestre, perché so che le persone incluse (nelle “finestre”) non mi nuoceranno perché ho organizzato tutto io e poi si trasformeranno nei ninnoli e non sarà neanche necessario vederle ancora (le persone). Gli oggetti testimoni di queste persone che non mi hanno bruciato, sono i ricordi belli. Posso pensare solo a questi e non agli altri, tipo guardare vecchie fotografie, perché quelli sono brutti ricordi”.

Con un linguaggio metaforico, accompagnato dall’analista, la paziente può descrive il dolore che lei tenta di evitare e controllare come un fuoco che brucia. Pertanto, ipotizziamo che per non essere scottata dalle sue stesse emozioni abbia messo su una strategia ossessiva e controllante in cui lei si illude di poter aprire e chiudere a piacimento la vita (che include il dolore) e tenerla a bada.

Sembra che attraverso un lavoro analitico fatto di un linguaggio metaforico e di significati simbolici si possa gradualmente arrivare a lei (lavorando sulla sua verticale come direbbe Ferrari) in un tentativo di creare un progressivo contatto con le sue emozioni, allontanate per la sua paura di rimanerne sopraffatta e “bruciata”. Alimenta il lavoro e la speranza che Barbara si stia aprendo verso qualcosa di nuovo, l’osservazione che la relazione analitica in corso sia ancora viva e non ancora rinchiusa tra i tanti souvenir nella sua casa museo.

 

Perdersi e ritrovarsi: il caso di Francesca

Francesca, una ragazza di 28 anni, si presenta al primo incontro sorretta da stampelle e con un tutore alla gamba a protezione di una frattura occorsale a lavoro. Ha un’aria disorientata, timorosa e uno sguardo vigile sempre fisso sull’analista. La prima impressione data è di estrema fragilità, veicolata anche da una postura del suo fisico gracile raccolto in modo rigido sulla poltrona.

Racconta che questo periodo d’inattività, a seguito di un banale incidente capitatole a lavoro, ha fatto emergere tutta una serie di preoccupazioni e pensieri che definisce invadenti e che le generano ansia. Immediatamente elenca, come un fiume in piena tutte questi pensieri angoscianti: “Se la frattura avesse qualche complicazione e morissi... Se mi prendesse una malattia grave... Se fossi anoressica...”. Racconta di aver avuto da sempre problemi nelle relazioni che lei imputa ad episodi di bullismo nel periodo della scuola a causa del suo aspetto fisico, della sua timidezza, della sua “diversità”. Riferisce poi di essersi fatta da sola, consultando internet, una diagnosi di “disturbo ossessivo compulsivo” e di temere di aver ereditato i problemi psicologici del padre (“ha compulsioni e manie, a casa non si può nominare il numero tre”).

Nel corso dei successivi incontri permane questo clima di confusione e disorientamento, dovuto alle mille idee e ipotesi che l’analizzanda porta costantemente con sé sul motivo e l’origine dei suoi “stati”. L’analista ha la sensazione che l’analizzanda non riesca a parlare di sé senza fare ricorso a delle definizioni cliniche di cui sembra affamata, senza tuttavia mai riuscire a saziarsi: un apparente vuoto di sé che tenta costantemente di colmare cercando di identificare quello che le succede e che potrebbe definirla utilizzando etichette “prese dall’esterno”.

F: Quando sento di avere qualcosa mi angoscio, e per tranquillizzarmi cerco su internet i sintomi per capire cosa potrebbe essere.

A: E quando riesce a trovare qualcosa che le spiega cosa potrebbe avere, riesce effettivamente a tranquillizzarsi? Funziona?

F: In realtà quando leggo i sintomi di una malattia fisica o di un disturbo psicologico, mentre cerco mi sento leggermente meglio, ma poi faccio attenzione anche agli altri sintomi che leggo e alla fine sono ancora più preoccupata.

A: Prima di ricercare su internet lei avverte qualcosa, ma sembra confuso e angosciante. Cosa succede? Come se ne occupa?

F: In alcuni momenti, non so perché mi agito e mi vengono le paure. Allora ricerco delle rassicurazioni da internet, oppure occupando la mente pensando ad altro o facendo cose.

A: Sembra quindi che quello che cerca di fare di fronte al suo percepirsi agitata è allontanarsi da quello che sente e, forse, andandosene o cercando di conoscere quello che le succede su internet, si perde veramente. Lei pensa di riuscire a ritrovarsi su internet?

Porgendo attenzione a “modo e forma” con cui l’analizzanda si dispone, emerge nell’analista la percezione di una persona estremamente spaventata dall’emergere di sensazioni ed emozioni che non trovano forme di rappresentazione e contenimento adeguate, tanto da risultare invadenti e perturbanti. Il livello di allerta che si crea nell’analizzanda, la conduce ad uno stato di profonda preoccupazione circa la stabilità della sua condizione fisica e psichica. Tutto ciò la porta a subire queste situazioni emozionali con un vissuto d’impotenza e d’irreparabilità, alimentando in lei un senso d’ incapacità e mancanza di strumenti adeguati per affrontare il suo vivere.

Da subito appare evidente nel lavoro analitico come per Francesca sia estremamente difficile entrare in contatto con se stessa (relazione verticale) tanto che, per arginare il tumultuoso emergere di sensazioni ed emozioni dall’area entropica, è continuamente alla ricerca di definizioni “rassicuranti” provenienti dal suo ambiente familiare e culturale (relazione orizzontale). Nonostante ciò, lo spazio mentale dell’analizzanda risulta continuamente invaso da esperienze emozionali violente ed intense che le impediscono qualsiasi possibilità di registrazione, contenimento e riflessione.

 

A partire da queste premesse, il lavoro analitico è andato nella direzione di un’esplorazione del RDL nella verticale della paziente con l’obiettivo di attivare e stimolare la funzione di autosservazione dell’analizzanda.

Nel corso dell’analisi emerge che la paziente prova queste intense paure in particolare quando si trova costretta a rimanere a casa. Il tempo per lei sembra non riuscire a scorrere, e gradualmente emerge la sua angoscia che sfocia nella paura di ammalarsi, d’impazzire e della morte. Grazie al graduale lavoro di attenzione al tempo presente, accede tuttavia al suo desiderio di riempire le sue giornate con attività e relazioni da cui è allo stesso tempo spaventata per paura di trovarsi in difficoltà e non essere accettata.

F: Vedo che quando sto a casa vorrei stare fuori, mi annoio, mi spengo... ma poi capita che quando sto fuori mi vengono le paure perché non posso controllare i pericoli e vorrei tornare a casa. Però mi accorgo che è soprattutto quando sono a casa che penso a quello che mi spaventa. Per esempio questa settimana ho avuto un problema ai denti e le paure hanno “occupato tutto”.

A: Di cosa le parlano queste paure?

F: Che le cose possano andare male e che non ci sia rimedio... Ho pensato che la carie si potesse infettare o che il medico potesse sbagliare l’intervento... io vorrei stare tranquilla... non vorrei avere problemi...

A: Certo che se incontra degli ostacoli nella sua vita e non c’è possibilità di far niente per affrontarli... vorrebbe non incontrarli mai nella sua vita... Sia le persone che le malattie...

F: Le malattie mi fanno più paura che le relazioni... Quando ho paura poi inizio a pensare ripetutamente a come le cose possano andare male... Non vorrei pensarci…

A: Come abbiamo visto, quando incontra dei problemi nelle relazioni, sente di avere delle strategie: la fuga o l’evitamento. Ma dal suo corpo sa di non poter scappare... se non grazie al modo in cui utilizza il suo pensiero, per allontanarsi da lei e dalle emozioni che prova... Se è spaventata pensa subito ad una malattia e si vuole documentare, vuole conoscerla... Forse questo è il modo che ha trovato per affrontare la situazione... ma così facendo si allontana da quello che sente, perdendo il suo punto di riferimento.

Nell’osservare le difficoltà della paziente che si percepisce senza strumenti per gestire queste emozioni angosciose nelle quali si perde, l’analista decide di utilizzare una metafora. L’obiettivo è di offrirla all’analizzanda come un “catalizzatore di significati suoi propri, in modo che la possa usare come traccia intorno a cui coagulare l’esperienza di se stessa, a volte anche trasformando l’immagine metaforica, altre volte aggiungendo o sottraendo elementi, in qualche modo facendola sua” (Romano, 2013).

A: È un po’ come al mare quando la corrente la porta lontano dal suo ombrellone... Come fa a ritrovare il suo punto di riferimento?

F: Rimango sempre dove si tocca, dove c’è gente.

A: Quindi quello per lei è un riferimento... E se si accorge di essersi allontanata troppo dal suo ombrellone?

F: Controllo sempre dov’è perché poi ho paura di non ritrovarlo.

A: In questo caso la paura di perdersi le permette di ritrovarsi... Probabilmente ora deve potersi accorgere dei modi in cui si perde, con cui si allontana da sé.

F: Io mi accorgo che le paure mi fanno pensare sempre a qualcosa che accadrà nel futuro.

A: Allora l’attenzione al presente potrebbe essere il suo riferimento. Accorgersi se sta vivendo quello che ha di fronte o se si allontana nel “futuro”. Se si allontana deve trovare il modo per potersi “riconnettere”. Al mare come fa se si accorge di essersi allontanata dal suo ombrellone?

F: Esco fuori dall’acqua e mi riavvicino.

A: E’ importante che lei trovi il modo per fare questo anche nella vita. Voler eliminare gli ostacoli non l’aiuta a fare esperienza di sé. Trovarsi nelle difficoltà le può permettere di imparare e crescere.

Nella seduta successiva, l’analizzanda racconta un episodio per lei significativo. Una sera ha voluto “fidarsi” dei suoi amici per essere riaccompagnata a casa, nonostante la paura di possibili “pericoli”. Riferisce questo perché si è impegnata a “sentire” quello che provava: da una parte non voleva farsi accompagnare come al solito dal padre per togliergli un “peso” e per il fatto che in questo modo si sente sempre “bambina”. Dall’altro sentiva anche che il fidarsi degli amici era per lei un segno di crescita e di sfida rispetto le sue paure. Riferisce di essersi spaventata molto quando per un problema al navigatore l’amico che guidava la macchina si era perso. Non riuscivano a ritrovare la strada e lei si è sentita molto angosciata: pensava di aver fatto male a fidarsi e soprattutto desiderava di non trovarsi lì, ma a casa dalla madre. Dopo essersi “persa” anche lei nelle sue angosce, come gli amici con la macchina, ha però trovato un modo di “ritrovarsi”: ha sentito che tutto quel pensare di non voler stare in quella situazione era “inutile”, e che doveva cercare lei un modo per risolvere il problema. Decise allora di esporsi con i suoi amici e di utilizzare il navigatore del suo cellulare e con sua grande soddisfazione riuscì a ritrovare la strada perduta.

Nel corso dei successivi incontri il tema delle paure legate alle malattie, pur non scomparendo del tutto, inizia a diventare periferico e l’analizzanda inizia ad incuriosirsi alle sue emozioni che tenta di conoscere ed esplorare. Riferisce di sentire di potersene occupare esprimendo maggiormente quello che sente. Rivela un pensiero che l’ha accompagnata per molto tempo: in passato, quando si preoccupava di sue difficoltà legate al vivere, la madre, preoccupata nel vederla in difficoltà, le diceva di non pensare a quei problemi definendoli “sciocchezze”, perché nella vita “ci sono problemi ben peggiori” come le malattie o la morte.

A partire da questo “modello” offertole dalla madre e diventato il suo, l’analizzanda oggi riferisce di sentire un “cambiamento di pensiero”. Prima faceva coincidere l’idea di felicità con quella di salute, intesa come assenza di malattia e ostacoli, ora invece sente maggiore responsabilità verso se stessa, pensando di potersi “occupare dei problemi” (delle sue emozioni che la spaventano e del doversi confrontare con la realtà) per cercare di stare meglio.

Il tema che ricorre frequentemente nelle ultime sedute è la “relazione platonica” che l’analizzanda sente di avere con il titolare del negozio dove lavora. Spiega che “comunicano il loro amore” solo tramite gli stati di Whatsapp e poi a lavoro ci sono “continui riferimenti” a quello che si sono scritti. Dice che in passato la relazione le stava bene così dato che “la situazione non può cambiare perché lui è sposato e ha dei figli” e che la natura del suo amore è puro e per questo non sta facendo niente di male.

Qui la paziente sembra utilizzare un altro registro: emerge una forma di pensiero bizzarro, a tratti delirante, probabilmente sotto la spinta di una forte angoscia legata ad un’emergenza del tema trattato. Si apre uno spaccato sul suo modo infantile e legato al mondo delle fantasie del suo essere donna. Il sintonizzarsi col RDL delirante della paziente permette l’emergere di vissuti ambivalenti e irrisolti presenti in lei.

 

F: Ultimamente mi sento più sicura nel poter dire la mia quando c’è qualcosa che non va. In particolare a lavoro con il mio capo. A volte mi fa arrabbiare e penso anche di volermene andare via... Così capisce quello che perde!

A: Cos’è che le ha fatto provare così rabbia da pensare di licenziarsi?

F: Io voglio dargli quello che la moglie non gli dà... non pensa mai a lui, lo trascura... io voglio dargli attenzioni, farlo sentire importante... Per questo per un periodo ogni giorno gli facevo un origami e glielo regalavo. Un giorno però non li ho più visti e nel cercarli ho scoperto che li aveva buttati nella spazzatura. Ci sono rimasta molto male perché erano un segno del mio amore per lui. Mi sono arrabbiata e gli ho detto che è stata una cosa brutta, ma lui non ha detto niente ed è rimasto impassibile... È fatto così, lui vuole provocarmi in modo che io mi esponga di più con lui.

A: E cosa la trattiene dall’esporsi di più sulla natura della vostra relazione?

F: Ho paura che lui possa dire che io mi sono inventata tutto e rovinerei la mia “favola”. Eppure i messaggi che ci scambiamo sono così espliciti che non può essere che io abbia frainteso tutto. Oppure che a lui sta bene così, gli piace dialogare tramite “stati” e quello che io dò a lui... Lui pure in realtà è timido e aspetta che io faccia il primo passo. Una volta ne ho avuto anche l’occasione: un giorno mi chiese perché gli facevo gli origami... Lui voleva che mi esponessi, ma io ho avuto paura e non ho detto niente.

A: In questa situazione sembra che ci siano dei momenti in cui la “favola” rischia di essere infranta, tanto che lei si arrabbia così fortemente da volerlo punire con il suo abbandono.

F: Sì, forse la favola è più mia… Lui non è un tipo da favola... Il punto è che quando vedo delle cose “reali” mi arrabbio perché distruggono la favola che vorrei... Poi però mi dico che bisogna accettare l’altro per come è... Il fatto è che è difficile rimanere in questa situazione perché ora sento che anche io ho dei bisogni... stare con lui... avere quello che ha sua moglie...

A: Sembra che quando vede le cose “reali” queste rappresentano un limite a quello che lei vorrebbe trovare e questo la pone in contatto con il suo odio... Forse rispetto al passato può reggerlo di più… Le dice qualcosa rispetto la situazione?

F: Sto male perché mi sento messa in secondo piano rispetto alla moglie... anzi mi sento che non occupo nessun posto... Non ho un posto mio.

A: Allora credo sia importante continuare ad ascoltare quello che sente... perché solo in questo modo lei può occupare una posizione, la sua.

 

Il sintonizzarsi sul suo registro di linguaggio ha permesso di esplorare il suo funzionamento, conducendo a presentificare la dissonanza che appare tra il suo pensare e il suo sentire. Inizialmente l’esprimersi dell’analizzanda era caratterizzato da un RDL di tipo fobico-ossessivo: la difficoltà a percepire e riconoscere le sue sensazioni ed emozioni la portava ad avvertire il “pericolo” come proveniente da “altro da sé”, come sottolineato da pensieri vissuti come “invadenti e disturbanti” rispetto alle malattie o agli incidenti, qualcosa fuori dal suo controllo che la poteva “prendere” o “contagiare”. Inoltre tale avvicinamento al suo RDL ha condotto l’analizzanda alla possibilità di potersi pensare, percepire ed interessarsi al suo funzionamento, piuttosto che difendersi rigidamente dai “pericoli del mondo” (e del vivere). Questo ha permesso di parlare di qualcosa che veniva riconosciuta come proveniente da sé, ovvero il sentimento di amore che prova per un uomo.  A questo punto però cambia l’angoscia e con essa cambia anche il RDL, che da fobico-ossessivo diventa delirante. L’analizzanda, non riuscendo ad assumersi la responsabilità del suo sentire, attiva un pensiero magico con il quale riesce a mantenere in piedi “la favola”, di cui sente aver bisogno per allontanarsi dal confronto con una realtà ben più complessa che sembra non riuscire a sostenere. Il corpo con le sue sensazioni ed emozioni riporta tuttavia il senso del limite che provoca in lei una reazione di odio, dal quale sembrerebbe costantemente voler fuggire. Pur non assecondando le sue fantasie, l’utilizzo del suo stesso RDL le ha permesso di interessarsi al suo modo di vedere le cose e ha aperto il campo di esplorazione a nuovi e rilevanti temi, come la costellazione edipica, la configurazione egoica e la femminilità di base, che potranno essere affrontati nel corso del lavoro analitico.

 

Conclusioni

L’avventurarsi nell’esplorazione del concetto di RDL è stata un’esperienza stimolante quanto complessa. Siamo partiti dicendo subito che questo è anche dovuto al “registro allusivo” che permea l’opera di Ferrari. L’ipotesi di Ferrari ci fornisce infatti tutta una serie di concetti che se da una parte “rompono” con la terminologia della psicoanalisi classica, dall’altra rimangono spesso volutamente insaturi con lo scopo di seminare e stimolare nella mente del lettore la ricerca costante di significati, comprensione e pensiero. Così, anche per i RDL, il materiale teorico che lui propone è sintetico e lascia aperte strade da costruire e da percorrere. Basti vedere “l’ecc.” con il quale lui termina l’elenco dei vari tipi di RDL, come a far capire al lettore che lo strumento da lui offerto è come una pianta che non va soffocata ma innaffiata con nuove riflessioni, proposte e possibilità.

Da subito se ne intuisce l’importanza data da Ferrari a questo concetto, tanto da collocarlo nel sottotitolo de L’Alba del Pensiero: dal teatro edipico ai registri di linguaggio. È proprio dalla “nascita” del pensiero che parte la nostra riflessione per la comprensione dei registri di linguaggio. Secondo l’ipotesi di Ferrari, in ogni individuo sensazioni ed emozioni aspirano a fluire verso il pensiero. Partendo da un indifferenziato iniziale, che comincia a differenziarsi e a distinguersi attraverso la presenza di un minimo spazio mentale, avviene la trasformazione delle sensazioni in emozioni e in rappresentazioni destinate a creare rappresentazioni visive, fino ad arrivare al pensiero e quindi al linguaggio che danno nome e significato a ciò che si attiva nella sensazione-emozione in quel momento. Il passaggio dalla corporeità alla nascita del pensiero avviene quindi grazie alla possibilità, insita nel sistema, di creare modalità espressive di sensazioni e percezioni provenienti dall’area entropica che premono per essere figurate, configurate, rappresentate (Ferrari, Stella, 1998).

I RDL costituiscono dunque delle potenzialità espressive che sono dei prerequisiti della formazione del linguaggio stesso e che sono in stretta relazione con la dimensione verticale. In questo senso, l’attenzione a queste modalità espressive nel lavoro analitico contribuisce ad affinare i nostri strumenti di ascolto e d’indagine permettendo di cogliere nell’hic et nunc della seduta quello che il paziente sente nel momento stesso in cui lo vive (Ferrari, Stella, 1998).

Pensiamo che il vivaio in cui permettere l’evoluzione di quanto proposto da Ferrari sia la pratica clinica, di cui abbiamo cercato di offrire qui un personale spaccato.

L’utilizzo di questo strumento permette all’analista di porgere ascolto al dire dell’analizzando per individuare modo e forma del suo disporsi verso se stesso: il suo stile di vivere, il modo di pensare e le teorie implicite che costruiscono ed organizzano il suo mondo. Il seguire questi elementi ci permette di avvicinarci e comprendere quali sono i suoi nuclei di vulnerabilità più importanti e quali sono le risorse che ha a disposizione per proteggersi e compensare questa vulnerabilità. Allo stesso tempo è necessario che l’analista rivolga il proprio ascolto a ciò che quel dire di quell’analizzando in quel momento evoca in lui in termini di sensazioni, emozioni e pensieri, attraverso cui poter formulare una proposizione capace di affiancare la particolare configurazione che il sistema dell’analizzando sta assumendo in quel preciso istante, e attivare in lui percezione ed esperienza di se stesso (Romano, 2013).

 

BIBLIOGRAFIA

 

A. Ferrari, A. Stella, L’alba del pensiero, 1998.

A. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, 2004.

A. Ferrari, Il pulviscolo di Giotto. Saggi psicoanalitici sullo scorrere del tempo, 2005.

A. Guggenbühl-Craig, Deserti dell’anima: riflessioni sull’eros e sulla psicopatia, 2001.

A. Panza, Registri di Linguaggio, in Instabili Equilibri, a cura di C. Bergerone, D. Radano, S. Tauriello, 2013.

A. Panza, M. Romanini, S. Tauriello a cura di, Corporeità. L’Oggetto Originario Concreto: un’ipotesi psicoanalitica in espansione, 2009.

C. Bergerone, D. Radano, S. Tauriello a cura di, Instabili Equilibri. Dalla fisicità al pensiero nella relazione analitica, 2013.

D. Kalsched, Il mondo interiore del trauma, 2001.

F. Romano, La parola nel linguaggio analitico, in C. Bergerone, D. Radano, S. Tauriello a cura di, Instabili Equilibri. Dalla fisicità al pensiero nella relazione analitica, 2013.

F. Romano, M. Romanini, S. Tauriello a cura di, La metafora nella relazione analitica, 2007.

G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all'arte di inventare storie, 1973.

P. Carignani, F. Romano a cura di, Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, 2006

 

L’evoluzione della figura paterna nella letteratura, nel cinema e nell’arte

La figura del padre nella letteratura del Novecento è ricorrente, in quanto punto di riferimento essenziale, come del resto lo sono i rapporti familiari. Ogni generazione, in questo Novecento, sembra aver dovuto affrontare lo scontro con la figura paterna intesa come metafora dell’autorità, del dominio, in quanto il padre diventa il punto di riferimento della legge. È colui che istituisce la morale e che idealmente istituisce il legame con le radici e con la tradizione (F. Panzeri, Critico letterario).

Nelle opere di questo periodo il figlio è sempre descritto in contrapposizione al padre; sono necessari uno scontro violento e una contestazione radicale per mettere in luce l’autorevolezza della figura paterna.

È l’ottica del figlio che, per crescere e per diventare “padre” egli stesso, sente la necessità di “provare” fino in fondo la struttura di questo ruolo (F. Panzeri).

Accade sempre, però, che una volta raggiunta la maturità, in questi stessi figli, avviene una rivalutazione della figura paterna, riappropriandosi di quel mondo paterno, fatto di valori e di tradizione culturale, che tanto hanno contestato. Adesso questi aspetti, ossia le proprie radici, sono percepiti come un patrimonio da tutelare per sé e per la propria riscoperta del mondo.

In queste opere, quindi, non si parla più di distacco, ma di riavvicinamento, anzi di riappropriazione dei valori, innanzitutto di quelli legati all’identità del padre.

Nelle opere letterarie degli anni novanta, invece, non c’è più il padre forte, autoritario, ma una persona fragile, ossessionata dai propri fantasmi e dalle improvvise debolezze, dove ognuno è incerto rispetto al proprio presente e all’identità che deve assumere.

Passando dalla letteratura alla televisione, sembra che la descrizione del padre “ideale” sia quella di un uomo separato, divorziato o, addirittura, vedovo.

“Per consentirgli infatti un ruolo di spicco è necessario uno sterminio di mogli, ingombranti e poco televisive. Questa scelta di autori e programmisti tv non manca di una sua pur bieca logica. Se la cura dei figli e l’andamento della casa vengono affidati alla madre, nessuno sceneggiatore potrà mai sottolineare con la dovuta enfasi l’impegno della figura maschile. Diventato donna, il padre è finalmente un personaggio televisivo” (G. Vecchiato, critico televisivo).

Il padre diventa, come ha scritto Curzio Maltese, «una vice-madre perdonista e servizievole, preoccupata soltanto di viziare i piccoli, perpetuandone la debolezza e la dipendenza».

Tale ruolo, lo rende ovviamente fragile, e sembra che l’unica soluzione per camuffare questa fragilità, sia quella di diventare “amico” dei figli, illudendosi di goderne confidenza e ammirazione.        

 

Da un punto di vista artistico, nelle riproduzioni del XIX secolo, si può osservare che il padre non è parte di una diade, ma viene sempre ritratto con tutta la famiglia, possibilmente al suo centro. È sempre molto difeso, molto vestito, si capisce bene a quale categoria professionale o sociale appartiene. Insomma, indossa ancora l’armatura di Ettore.

Oggi il ritratto di famiglia, quasi non esiste più, compare solo una diade: il padre con un figlio piccolo. I padri sono tutti giovani, belli, ma soprattutto seminudi. Il padre è ridotto a corpo, ma più di tutto ha abbandonato la sua armatura.

“La società ha deciso di spogliare Ettore perché non spaventi il bambino. Quest’ultimo non avrà più paura, ma avrà ancora un padre?” (L. Zoja, p. 259).

Oggi il padre gira per casa disarmato, non ha più la cinghia in mano, piuttosto lo possiamo trovare fuori dalla porta della camera del figlio in paziente attesa di “essere da lui ricevuto”; si tratta quindi di un padre che difficilmente deve essere ucciso anche solo simbolicamente. Secondo Charmet il padre di oggi è  “tollerante e aperto al dialogo, punta a presentare al figlio la complessità sociale, e ad insegnargli a decodificarla attribuendole un senso affettivo prima ancora che etico. L’etica viene dopo, prima bisogna familiarizzare col mondo, conoscerlo, dargli un senso, un significato progettuale, imparare ad adattarsi facendolo coincidere con la propria idea di crescita.(…) Il padre di oggi si trova ad una distanza affettiva ed educativa molto minore rispetto al passato. Il problema è come può essere utilizzata questa nuova vicinanza. Essa apre infatti nuove opportunità ma comporta altrettanti rischi, come quello che il padre venga meno al suo ruolo per trasformarsi a sua volta in un adolescente che cospira col figlio contro la madre, l’unica adulta rimasta in famiglia” (Pietripolli Charmet , Un nuovo padre, p.77).

 

Concludo citando ancora Zoja: “ il padre è assente come immagine ancor più che come individuo. Assente non perché, come Ulisse, è andato a combattere una guerra, ma perché si rifiuta di combattere nei rapporti (… ) il silenzio dei padri assorda lo studio dell’analista. Ogni giorno i pazienti rimproverano loro di non essersi espressi, addirittura di non essersi difesi; di non aver spiegato o sostenuto il proprio punto di vista; di essere stati presenti ma tacendo (…) Che sorpresa, allora, quando di colpo, da una terza persona che per loro poco conta, i figli vengono a sapere che da anni il padre parla quasi esclusivamente di loro e canta le loro lodi! La celebrazione avveniva ma nascosta nel segreto (…) Qualche volta la notizia è l’inizio di un dialogo. Altre volte, non è il principio di niente perché ormai il figlio ha imparato a sua volta a tacere. Spesso, è solo l’inizio di un rimpianto, perché le rivelazioni arrivano al funerale del padre” (L.Zoja, Il gesto di Ettore, pp 270-271).

E ancora: “Una storia psicologica dei padri è necessaria anche a molti figli. I quali, un giorno, vorranno uscire dal non-tempo per entrare nel tempo, e conoscere di chi sono i continuatori. Così, senza saperlo, essi aspettano di sentirla raccontare. Aspettano che qualcuno li svegli dal sonno della azioni riflesse, che tenda l’arco di Ulisse, e che la notte dei Proci abbia fine” (L.Zoja, p 305).

scritto da dott.ssa Maria Cristina Pacella

Bibliografia

 

Famiglia Oggi, Semplicemente padri, N. 11 novembre 1999

Farri Monaco M., Peila Castellani P., “Il figlio del desiderio. Quale genitore per l’adozione?”, Boringhieri, Torino 1994

Kerényi C., “Gli dei e gli eroi della Grecia”, vol.I, (1951) trad. it Il Saggiatore, Milano 1963

Pietropolli Charmet G., Un nuovo padre, Mondadori, Milano 1995

Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, Raffaello Cortina Editore 2000

Stoller R., Genere e identità di genere, Aronson 1968

Winnicott D.W., (1984) Il bambino deprivato, R. Cortina, Milano 1986

“…senti?…a proposito del Padre e… della sua gravidanza…”, IV Congresso Internazionale, tenuto dall’istituto di Psicoterapia Analitica Esistenziale di Ascoli Piceno, marzo 2006.

Zoja L., Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri 2000

 

L’evoluzione della figura paterna

L’evoluzione del padre

La descrizione del “padre di oggi” contiene elementi che forse, non hanno nulla in comune con quelli del “padre di ieri”.

Oggi si parla di padri “marsupiali”, di padri “mammi”,  il cui coinvolgimento nella realtà del bambino inizia ancor prima della sua nascita, con la partecipazione, insieme alla moglie, ai corsi di preparazione al parto. Questi padri, insomma, hanno imparato a fare quello che da sempre fanno le madri, assumendo funzioni, compiti e competenze femminili.

Il “padre di oggi” è un uomo che si interroga su se stesso, sul rapporto di coppia, sulla paternità. È un padre che sembra aver rotto i ponti con le proprie memorie e con la  tradizionale rappresentazione della genitorialità e che rivendica per sé un’immagine diversa da quella del proprio padre.

Il “padre di ieri” era più definito: un padre autoritario, forse più distante affettivamente ed emotivamente, ma con precisi compiti, diritti e doveri. Il figlio, in qualche modo, sapeva cosa potersi aspettare dal padre, sapeva come relazionarsi a lui; in sostanza, sapeva chi era suo padre.

Il “padre di oggi”, invece, è così vicino ai propri figli, eppure così lontano, perché vago, indefinito, senza modelli di riferimento.

Pietropolli Charmet, infatti, sostiene che a far da maestri a questi padri, non sono stati né i loro padri, che hanno invece funzionato da modelli di controidentificazione, né le loro madri, messe in secondo piano come formatrici, né i modelli ideali e culturali della generazione precedente alla loro. I “padri di oggi” sono stati addestrati a fare i padri dalle loro mogli e soprattutto dai loro figli.

“Si sono messi ad imparare il mestiere non imitando il loro padre ma cercando di capire cosa  voleva il figlio” (Pietropolli Chiarmet, I nuovi adolescenti, 2000 p.19).

Il nuovo padre, è diventato quindi, un padre affettivo, empatico, “da signore della guerra a padrone del significato degli affetti e dei conflitti, donatore di senso agli stati confusi ed enigmatici della vita interiore: un donatore di senso, un accompagnatore nel labirinto della crescita, una guida, una presenza empatica.”  (Pietropolli Chiarmet, I nuovi adolescenti, 2000 p.19).

La vaghezza del “padre di oggi” si traduce in una varietà di schemi di relazione padre-figlio, di cui Pietropolli Charmet ha tentato una classificazione.

Egli descrive il padre “disertore” che vive cioè mentalmente altrove e non nella quotidianità della sua famiglia per motivi di coppia, culturali o personali. L’assenza di questo padre sarebbe l’espressione di un conflitto non risolto con il padre e la paternità, che ha radici molto arcaiche.

Spesso accade però che tale tipo di padre venga convocato d’urgenza da qualche gesto grave del figlio, gesto che lo autorizza ad assumere il ruolo paterno dimostrando una competenza insospettabile in quell’uomo tanto distratto ed assente negli anni precedenti.

C’è poi il padre “debole” che sembra essere la risposta al padre “forte” di un tempo. Sembra, infatti, che questo tipo di padre pur di mettere i figli in salvo dalle minacce del padre forte, si sia rifugiato nella debolezza, che crea effetti più potenti del padre disertore, in quanto la debolezza è lì, sempre presente, si manifesta nella quotidianità, si nota in ogni gesto.

Il padre debole è ampiamente presente e apparentemente accudente e interessato alle vicende della vita familiare. Il suo reale interesse, però, non è educativo, ma nasconde un bisogno di consenso e di approvazione. Di conseguenza non può prendere decisioni, non può punire, contraddire, non può indicare con fermezza la strada da percorrere.

Il padre debole combatte soprattutto la madre, mettendole i figli contro, invitandoli a non prenderla sul serio, screditando ogni suo gesto o iniziativa. Egli non dice mai di no, perché attende i no della madre per poterli contraddire e per mettersi sempre dalla parte dei figli, facendoli automaticamente suoi alleati.

Avere un padre debole è, secondo Charmet, un danno peggiore che averne avuto uno forte o anche fortissimo. Meglio la paura che il senso di colpa e l’imbarazzo che suscita la debolezza del padre.

L’ultima “tipologia” di padre è quella del “geloso”, rappresentata da quegli uomini che non possono, non sanno, non vogliono diventare padri dei loro figli, che sono uomini e basta; si tratta, in questo caso, di un estraneo travestito da padre, di un maschio adulto che vive i figli come una minaccia alla sua giovinezza e libertà e verso i quali prova di conseguenza rabbia e disprezzo. Egli non è dunque in grado di accudirli ma tende piuttosto ad utilizzarli come pubblico da strabiliare con i prodigi consentiti dalla sua potenza virile.

Anche altri autori hanno tentato una classificazione dei vari modelli di padre: Ventimiglia C, al riguardo parla di un padre “oblativo” e di un padre “rivendicativo”.

Il padre “oblativo” è il padre “offerente”. È il sostegno, è colui che dà una mano in casa, che aiuta la moglie nella gestione del ménage quotidiano e che ritaglia luoghi e tempi per il proprio rapporto con i figli. E’ il padre che tendenzialmente non agisce il “no” nella relazione con i figli, percependosi a disagio nel doversi misurare con un ruolo fortemente normativo.

Quello del padre rivendicativo è un profilo paterno che denuncia una latente non disponibilità, la quale acquisisce la forma relazionale del “chiamarsi fuori” dal contesto della quotidianità. È il padre che rivendica per sé diritti di libertà e di privacy domestica, rispetto a tutti gli altri significati della famiglia. È, infine, il padre che teorizza la centralità e la priorità della propria dimensione professionale rispetto a quella della donna.

scritto da dott.ssa Maria Cristina Pacella

 

La funzione materna è un fatto di natura, si fonda su basi biologiche precise e facilmente reperibili, direttamente attestate dai sensi, mentre la funzione paterna sfugge ad ogni controllo sensoriale diretto. Il padre intreccia col bambino una relazione più distante, dal rilevante valore simbolico.

Sfuggendo al dato di natura la figura paterna entra nel campo della cultura.
Già durante il periodo della gravidanza l’uomo svolge la funzione paterna, attraverso la sua capacità di influenzare l’atteggiamento della madre nei confronti del figlio che è dentro di lei. Così come la donna esercita la sua funzione materna contenendo il figlio, la funzione paterna richiede all’uomo di porsi, in questo periodo, come colui che può dare contenimento alla nuova coppia formata dalla sua donna e dal bambino che sta crescendo dentro di lei.

Winnicott, al riguardo, sostiene che nelle primissime fasi della vita del bambino, quando la madre si trova immersa in quello stato psichico che l’autore chiama preoccupazione materna primaria, il contributo fondamentale del padre è quello di relazionarsi al mondo reale in vece sua, occupandosi dell’ambiente esterno anche per conto della sua compagna.

Il padre è anche colui che aiuta il bambino a separarsi dalla madre, da quel rapporto così altamente simbiotico, per differenziarsi e raggiungere una propria identità come essere separato. Il suo compito è quello di offrire al bambino l’esperienza della triangolazione, cioè di un incontro a cui partecipano tre entità distinte, bambino, madre e padre, favorendo così il riconoscimento da parte del bambino di se stesso come essere esistente in maniera concreta, distinta e peculiare.

Secondo Stoller (1968) la nostalgia dell’esperienza fusionale primaria è una minaccia sempre latente per la virilità, all’origine di tutte le difese maschili; spetta alla funzione paterna sostenere la sepazione dalla matrice simbiotica originaria e avviare il figlio all’autonomia; se il depositario di tale funzione psichica è assente nella vita affettiva e relazionale del bambino, la funzione separante e normativa non può essere interiorizzata e fondare l’Ideale dell’Io, deposito delle norme e dei valori interiorizzati.

A tal proposito E. Gaddini, scrive (1985): “mentre la madre resterà sempre la condizione dell’esistere, il ruolo del padre è quello di aiutare ciò che esiste a divenire”. In altre parole potremmo dire che se alla madre è affidato il compito di essere custode dell’appartenenza (del legame), spetta al padre sostenere e supportare la spinta verso l’individuazione.

Quando in adolescenza deve essere confermato e stabilizzato il nucleo infantile dell’identità di genere, la relazione diadica con il padre assume un’importante funzione di riferimento; la sua presenza, infatti, consente all’adolescente di abbandonare la fantasia  di poter essere reinglobato da una madre arcaica divorante, ostile ad ogni separazione.

Nei contesti sociali o relazionali in cui la figura paterna è assente, fisicamente o psichicamente, il gruppo dei pari sostituisce gli adulti in tale funzione. In mancanza di un modello paterno, l’adolescente maschio tende ad assumere una pseudo-virilità dai tratti stereotipati e caricaturali, mutuata dalle relazioni fra coetanei.

scritto da dott.ssa Maria Cristina Pacella

Viaggio nella dimensione paterna

L’immagine materna conserva il carattere  dell’immutabilità, perché incarna il principio eterno e onnicomprensivo che guarisce, che nutre, che ama e che salva (…) Invece, accanto all’immagine archetipica del padre, risulta sempre importante anche quella personale, che però non è determinata tanto dalla sua persona individuale quanto piuttosto dal carattere della cultura e dei valori culturali in trasformazione che egli rappresenta.
Neumann, Storia delle origini della coscienza
 

La figura paterna, i suoi comportamenti, le sue debolezze, si inseriscono lungo un filo che parte da molto lontano, addirittura dall’antica Grecia e che, arrivando ai giorni nostri, permette di far luce su questa figura così importante e “mitizzata” ma al contempo così fragile e “umana”, affidandosi ad una dimensione in cui il  transculturale e gli archetipi hanno un ruolo fondamentale.

Secondo Zoja, il rapporto tra il figlio e il padre, è molto condizionato dall’ambiente e da altri tipi di legami. L’immagine della coppia figlio-padre, infatti, sin dall’inizio si inserisce in una triade, a differenza della coppia figlio-madre, che è inserita in una diade esclusiva.

Il ruolo principale del padre è quello di insegnare al figlio ad essere nella società. Perché ciò sia possibile il figlio deve poter vedere il padre non solo come colui che lo ama, ma anche come quella persona forte in grado di difenderlo e di “combattere” per lui.

Zoja spiega molto bene questo passaggio attraverso, appunto, il gesto di Ettore: “Ettore tende le braccia al figlio. Ma il bambino si rifugia contro il petto della balia con un grido, spaventato dall’armatura e dall’elmo sovrastato da un’impressionante chioma (…) a questo punto, padre e madre sorridono. Ettore si sfila l’elmo, lo pone a terra e può abbracciare il figlio (…) Formulando un augurio per il futuro, leva il figlio in alto con le braccia e con il pensiero: <<Zeus e voi altri dei, rendete forte questo mio figlio. E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica: “è molto più forte del padre”>> (L.Zoja, pp. 90-91).

Il gesto di “elevare” il proprio figlio è tipico dell’antica Roma, in cui il padre ha diritto di vita e di morte sul figlio. Il mondo romano rappresenta, infatti, il vertice dell’autorità paterna sul figlio.

Il padre, dunque, porta un’armatura, aggressiva e difensiva. Una specificità paterna, dice Zoja sta proprio in questo: egli può essere con il figlio quando sa anche stare con l’armatura, può essere padre quando è anche guerriero. Diversamente dalla madre, non può fare solo una delle due cose: se lo vede solo con le armi il figlio non lo riconosce; se non lo vede mai con le armi, non lo riconosce come padre”. (Zoja op.cit.).

Zoja sostiene che mentre essere madre significa prolungare dopo la nascita del figlio la propria condizione di genitore, essere il genitore maschio ed essere padre sono invece, fin dalle origini, due cose separate e diverse. Per essere padre, infatti, non basta generare, è importante mostrare la volontà di essere padre: il sollevare pubblicamente il figlio indica assumersene la responsabilità, trasferire il bambino più in alto socialmente e moralmente per la vita intera. A Roma, ogni paternità vera è un’adozione, mentre la semplice paternità fisica non è quella vera, non conta.

È questo che intende Zoja quando afferma che il padre è costruzione, è intenzionalità, è volontà (L. Zoja, 2000) e che il ruolo paterno, pertanto, è determinato più culturalmente che non biologicamente.

Anche Freud dà molta importanza alla figura paterna, quando pensa alla creazione della civiltà. Per Freud il padre è una guida, che trasforma il bambino da essere istintivo ad essere sociale. Introiettando la figura paterna, il bambino getta le fondamenta della morale; nasce in lui un’istanza, chiamata Super-Io, idealmente riferibile tanto ad un dio-padre, quanto al padre personale.

In Totem e Tabù (1912-13) Freud sostiene che le prime forme di vita sociale nascono proprio dalla collaborazione dei figli-fratelli che, dopo aver eliminato il padre, per espiare il senso di colpa che ne deriva, interiorizzano la sua immagine costituendo il Super-Io come istanza interna e le istituzioni civili e religiose come istanze esterne.

Per Jung, invece, il padre è un simbolo che trascende il padre personale. E’ funzione archetipica dell’inconscio collettivo che condiziona “da dentro” le nostre scelte esistenziali.

Esorcizzare la dimensione paterna, l’ “archetipo del padre”, porta ad un errato rapporto con la vita, ad un’angoscia esistenziale motivata dal fatto che la simbiosi con la madre non viene superata.

Scrive Paolo Ferliga nel suo libro “Il Segno del Padre”: “Gettandosi alle spalle l’archetipo del Padre, con tutto ciò che di positivo rappresenta (la legge interiore, l’ordine e la misura, il rapporto con Dio e col sacro), la coscienza diviene preda dell’inconscio e confonde l’autorità con l’autoritarismo, la legge col potere, la realizzazione della propria identità con la distruzione di quella degli altri. In questo caso è come se l’archetipo si scindesse in due presentando alla coscienza solo il suo lato oscuro, la sua distruttività scatenata” (Paolo Ferliga ”Il segno del padre” – Ed. Moretti e Vitali).

Le prime riflessioni culturali sembrano dare importanza alla donna ed escludere il maschio per la mancanza di conoscenze sul meccanismo della riproduzione. Il maschio nasceva e moriva apparentemente senza riprodursi e senza lasciare traccia di sé. L’uomo appare escluso dalle fantasie relative al mistero della nascita e della creazione.

Mentre, infatti, il legame genetico con la madre è stato da sempre immediatamente evidente, non la stessa cosa può dirsi per la relazione paterna. Nelle culture pre-scientifiche non c’era consapevolezza del legame di consanguineità tra padre e figlio, non essendo ancora nota, cioè scoperta, la proprietà fecondativa dello sperma.

Le rappresentazioni arcaiche della nascita, hanno alla loro base la non conoscenza del ruolo genetico svolto dal padre nel concepimento. La gravidanza è diffusamente considerata l’incarnazione nella donna di uno spirito che può giungere a lei nei modi più diversi: per contatto con una sostanza magica o con il passaggio attraverso un centro totemico; possono esserci gravidanze provocate da alcuni fiori o frutti, dalle acque dei fiumi o dei mari, dalla pioggia o dal vento, dagli astri, frequentemente dai poteri fecondanti della luna (Lo Russo G., “La nascita del padre”).

I figli, secondo la credenza indigena, vengono introdotti nell’utero materno sotto forma di spiriti piccolissimi, generalmente dallo spirito di una parente della madre. Il marito deve allora proteggere e amare i piccoli, ma essi non sono “suoi”, in quanto egli non ha partecipato alla loro procreazione. Il padre è, così, un amico benevolo e amato, ma non un parente riconosciuto dal fanciullo. Parentela reale, cioè identità di sostanza, “identità fisica”, esiste soltanto attraverso la madre.

La mitologia mostra come nel maschio vi fosse un desiderio invidioso rispetto al potere generativo della donna. Il mito di Zeus che genera Atena e Dionisio, incorporandoli al proprio interno, per poi procrearli, è segno della rivalità e dell’antagonismo fra i sessi.

Tale sentimento di esclusione ha portato l’uomo a ricercare un predominio culturale, attraverso la regolamentazione dell’incesto e dello scambio delle donne, svalutandole e rendendole oggetto di un sistema regolato dall’uomo.

In linea con le tesi sulla superiorità del sesso maschile, il pensiero dominante era che fosse soltanto il padre a generare il bambino e che la madre fornisse semplicemente il luogo per il suo sviluppo. Tale idea viene espressa da Eschilo nelle “Eumenidi”, attraverso le parole di Apollo: “Colei che viene chiamata madre non è la genitrice del figlio, bensì la nutrice dell’embrione appena seminato: è il fecondatore che genera, lei invece, salvo che un dio non l’impedisca, porta il germe a salvezza, come una straniera nei confronti di un ospite. Ti darò una prova di questa affermazione: il testimonio è qui vicino, la figlia di Zeus Olimpo” (C. Kerényi, 1951).

Con l’avvento della società patriarcale si assiste ad una bipolarità culturale che contrappone la cultura maschile espressa dal Logos, alla biologia femminile espressa dall’Eros (M. Farri Monaco e P. P. Castellani, 1994).

L’istituzione Chiesa apporta non pochi cambiamenti alla dimensione paterna; sancisce, infatti, la solennità del matrimonio, termine che indica i diritti della madre. Il divenire padre è legato solo all’amministrazione delle risorse economiche (patrimonio).

La Chiesa, inoltre, dà importanza all’immagine di Maria e quindi ad una visione matricentrica dell’intero nucleo familiare (L. Zoja, 2000).

È con la Rivoluzione Francese che in parte si risolleva la posizione della donna, cui viene riconosciuto un ruolo superiore, in quanto preposta alla conservazione della specie; ma l’eredità culturale e psicologica conserva una visione androcentrica, secondo cui il maschio riveste un ruolo specializzato.

In questo contesto storico e culturale il desiderio di paternità assume significato solo in relazione  alla continuità della propria discendenza.

Tradizionalmente i padri venivano considerati persone estranee alla cura dei bambini, con il compito di sostenere economicamente la famiglia. Essi costituivano per i figli, un modello importante ma lontano e, per le mogli solo una forma di sostegno morale e materiale. I padri producono un reddito, ma non producono più insegnamento diretto e iniziazione alla vita adulta.

Negli anni ’50 le ricerche sul ruolo del padre si sono concentrate, invece, sullo studio delle relazioni fra carenza o assenza di tale figura in famiglia e sulle conseguenze psicoaffettive nello sviluppo del figlio.

I problemi connessi alla funzione paterna nella nostra società debbono essere visti soprattutto, sullo sfondo dei profondi mutamenti progressivi che si sono avuti nell’organizzazione delle relazioni familiari. La funzione paterna infatti, in quanto funzione vitale, è relativamente più influenzata dai mutamenti sociali rispetto alla funzione materna. È infatti indiscutibile che ci sia stato un cambiamento culturale straordinario nell’immagine che oggi abbiamo del padre. Gli è stata tolta ogni parvenza di autorità in famiglia. Non è più l’indiscusso signore da temere, rispettare, ubbidire. Il suo potere di disciplinare e punire i membri della famiglia che si macchiano di una colpa, si pensi all’antica figura del pater familias, è stato drasticamente ridotto. Il padre viene ormai considerato come una figura periferica. Prima viene la madre; è lei il genitore più importante. In realtà il padre rimane nell’ombra; egli è la persona trascurata. L’importanza del ruolo paterno è stata ridotta, quella del ruolo materno esaltata.

Solo negli ultimi decenni si è assistito ad una rivalutazione e ad un maggiore coinvolgimento del ruolo paterno all’interno di una integrazione delle competenze maschili e femminili.

Nonostante tale rivalutazione si assiste, tuttavia, ad uno smarrimento degli uomini in merito a quello che potrà essere in futuro il loro destino di padri, per lo scenario culturale che rende sempre più complessa e protagonista la maternità: instabilità coniugali, priorità della madre come genitore affidatario in caso di separazioni e divorzi, progetti di maternità senza partners.

scritto da dott.ssa Maria Cristina Pacella

L’immaginazione nella psicologia analitica 1

Da Verena Kast all’immaginazione attiva.

L’immaginazione è il regno della libertà: un regno dove i limiti sono oltrepassati in modo naturale, dove lo spazio e il tempo risultano relativizzati, dove vengono sperimentate possibilità che non abbiamo più o che ancora non possediamo.

Nell’immaginazione la realtà vissuta si trasforma in simbolo; essa diviene uno spazio intermedio tra la realtà concretamente vissuta e il nostro retroterra psichico.  (Kast, V. 1997, pag. 9)

Il testo di Verena Kast “Immaginazione attiva” ci introduce nel mondo dell’immaginazione, sebbene esista una profonda differenza rispetto all’immaginazione da lei operata e quella attiva, intesa, praticata e descritta da Jung.

Per comprendere la differenza dei due tipi di uso dell’immaginazione nel lavoro terapeutico potremmo definire la prima immaginazione passiva, nel senso che il soggetto che prende conoscenza delle immagini emerse dall’inconscio, lo fa con un atteggiamento passivo, privo di intuizione e percezione.

Potremmo affermare che le fantasie passive siano in qualche modo propedeutiche all’immaginazione attiva vera e propria.

L’approccio della Kast, sebbene inserito in un contesto di terapia junghiana, risente di contributi diversi, come il metodo catatimico di Lerner o influenze tratte dalla psicologia comportamentale.

Scrive: “Le immagini vengono utilizzate più o meno consapevolmente da tutte le scuole psicoterapeutiche. Ogni forma di terapia che si occupa di ricordi e aspettative, di timori e speranze, lavora necessariamente con la facoltà immaginativa dell’uomo” (Kast, V. 1997, pag. 20).

Per la Kast questa è una tecnica che deve essere presa in considerazione in ogni lavoro terapeutico che miri a rendere gli individui più autentici ed autonomi, a farli entrare in contatto con il proprio inconscio e a far sì che si rapportino con la realtà esterna in modo più creativo ed empatico.

È una tecnica particolarmente indicata per le persone che devono entrare in contatto con le loro emozioni, che hanno bisogno di considerare i problemi di vita attuali sul piano simbolico, quando predominano i sentimenti di vuoto e le emozioni negative.

L’immaginazione, scrive la Kast, si presta all’elaborazione dei sogni così come all’integrazione di complessi dissociati.

È invece controindicata per coloro che non riescono a vedere nessuna immagine oppure per quelli, che pur vedendole, non ne sono toccati emotivamente in nessun modo.

Gli interventi dell’analista servono a strutturare e a sostenere l’Io del paziente, affinché questi sia in grado di inserirsi all’interno del flusso delle immagini, rendendo più plastici i meccanismi di difesa, abbassando le resistenze e facendo sì che la coscienza non diventi giudicatrice nei confronti dell’inconscio.

L’elemento più importante per l’emergere delle immagini riguarda, infatti, proprio l’atteggiamento interiore del paziente, che deve essere caratterizzato da una sospensione della critica, da un’accoglienza totale delle immagini e da una riduzione dell’ipervigilanza.

L’Io deve essere ridimensionato, sebbene è necessario che mantenga un contatto costante con la realtà, con il mondo esterno, per evitare qualunque forma di scollamento e di manifestazioni allucinatorie o deliranti.

L’autrice suggerisce una serie di tecniche che favoriscono quel rilassamento necessario affinché le immagini possano comparire.

Le tecniche consigliate sono il training autogeno o in alternativa un training di rilassamento sensoriale, che consentono al paziente di sentirsi al sicuro nel proprio corpo, di avvicinarsi al proprio mondo interiore, attraverso uno stato di calma e di ascolto intimo.

Raggiunta questa condizione l’analista offre degli spunti, presenta delle immagini, quindi guida il processo immaginativo attraverso degli stimoli predefiniti.

Le immagini suggerite all’inizio sono immagini distensive e rilassanti, che però non si modificano molto, non danno luogo a grandi trasformazioni e nascono da indicazioni piuttosto neutre.

La conduzione delle immagini cambia secondo la persona: alcune persone, mentre immaginano, parlano; altre invece riescono a farlo solo dopo aver concluso l’attività immaginativa e questo porta l’analista a dover differenziare l’uso di tecniche di intervento diretto, tecniche più o meno dialogate, che favoriscono più o meno immagini guidate o spontanee.

All’inizio la Kast predilige immagini guidate, per poi lasciar spazio a quelle spontanee, che in ogni modo prendono sempre vita a partire da quelle suggerite.

Interessante è notare come una delle fonti alla quale attinge è la fiaba, che viene scelta in base a specifici temi che esprimono e rappresentano una determinata situazione problematica del paziente.

Viene scelta un’immagine della fiaba che ha particolarmente colpito il paziente, il seguito dell’ immaginazione è eseguito in silenzio, dopodichè avviene la verbalizzazione.

Le fantasie vengono, in questo caso, portate avanti anche al di fuori della seduta. (Continua)

Bibliografia

De Luca Comandini F., “L’immaginazione attiva”, in A. Carotenuto, Trattato di psicologia analitica, Torino, UTET, 1992

De Luca Comandini F., Mercurio R., L’immaginazione attiva, Milano, Vivarium, 2002

Jung C. G., Ricordi, sogni, riflessioni, a cura di A. Jaffè, BUR, Milano, 1992

Jung C. G., Analithycal Psichology: Notes on the Seminar given in 1925, Princeton University Press, Princeton, 1989 (Citazioni tradotte da Mercurio R.)

Kast V., Immaginazione attiva, Como, RED, 1997

Mercurio R., L’immaginazione attiva e la stanza dell’analista junghiano in Nella stanza dell’analista junghiano a cura di Maria Irmgard Wuehl, Milano, Vivarium, 2002

Mercurio R., L’immaginazione attiva come psicosi anticipata, in Psicosi e creatività, a cura di Ortoleva R., Testa F., Milano, Vivarium, 2003

Widmann C., Le terapie immaginative, Edizioni Magi, Roma, 2004

scritto da dr.ssa M.C. Pacella

L’immaginazione nella psicologia analitica 2

continua da “L’immaginazione nella psicologia analitica 1”

Verena Kast verso l’immaginazione attiva

Verena Kast  sceglie le fiabe, poiché portatrici d’immagini archetipiche che trattano delle difficoltà e dei loro possibili sviluppi, tipici della vita umana e dell’inconscio, che possono essere arricchite con materiale personale, facendo sì che motivi universali acquisiscano un’impronta personale.

Viceversa, anche le immagini personali possono essere messe in relazione con quelle archetipiche e intessute nei processi simbolici che di volta in volta vi si riferiscono; si possono così trovare soluzioni che non erano emerse nell’immaginazione del singolo.

I miti, le fiabe e i simboli albergano in un regno intermedio, che è il regno della fantasia, della creatività, e in generale, dell’arte. (Kast, V. 1997, pag. 48)

Questo è il regno che incoraggia ad escogitare quelle soluzioni, mai pensate prima, che aiutano ad affrontare le figure negative e persecutorie interiori.

Si può ad esempio imparare dall’eroe o dall’eroina della fiaba, oppure attraverso l’identificazione con uno dei personaggi principali.

Rispetto all’immaginazione guidata nel lavoro della Kast si possono rintracciare dei temi ricorrenti come l’immagine della casa, dell’acqua, del fiume, dell’albero, di un animale. Ognuno di questi è connesso ad aspetti ben precisi della personalità e delle problematiche del paziente.

L’immagine della casa viene stimolata attraverso delle indicazioni precise, che spaziano da un versante prettamente visivo, ad uno sonoro, tattile ed olfattivo, in modo da aprire tutti i canali percettivi.

La casa allude all’edificazione personale oltre che architettonica, alla pluralità dei piani della personalità, alla solidità della costruzione materiale e della costituzione psichica, all’organizzazione degli spazi interni e alla possibilità di coltivare oggetti, ricordi, affetti e relazioni. (Widmann, C., 2004, pag. 575)

Alla luce di ciò il paziente è invitato ad immaginare modificazioni e presenze di oggetti e persone.

Inoltre la casa va immaginata su tre livelli: quello reale, quello del desiderio e quello utopico.

Ciascuna possiede un livello di aderenza o spostamento dalla realtà che parte dalle radici biografiche ed evolve verso dimensioni più soggettive ed individuali.

Il tema dell’acqua viene usato quando si presentano immagini troppo statiche che sono sintomo di blocchi dovuti a nuclei di paure o ad arresti dell’energia psichica,  in quanto essa contiene l’idea del fluire, del movimento e della dinamicità.

L’immaginazione guidata stimola la visione di un fiume o di un ruscello: la natura degli ostacoli e l’atteggiamento del soggetto offrono sufficienti indicazioni per riflettere sulle cause del blocco psichico e sulle strategie per superarlo.

Il tema dell’albero è usato per sviluppare il motivo dell’identità personale, l’albero è il simbolo della personalità totale, le caratteristiche del tronco sono associate a quelle dell’Io: la Kast scrive “ può rappresentare il nostro modo particolare di essere divenuti adulti, il nostro modo di stare al mondo” (Kast, V. 1997, pag. 37).

Dall’interesse dell’autrice verso le fiabe nasce l’attenzione all’immaginazione che ha come soggetto un animale. L’animale rappresenta gli aspetti biologici e pulsionali della persona. Essi rappresentano i conflitti e le zone d’ombra ed è importante che non vengano uccisi, ma che con loro si instauri una lotta, un tentativo di domarli, un confronto, poiché spesso si trasformano in figure soccorrevoli e ausiliarie dell’Io.

Quando però gli animali si presentano in forme troppo minacciose, bisogna adottare delle strategie difensive, affinché l’Io non sia inflazionato da pulsioni eccessive e spaventose.

È necessario conoscere queste figure, avvicinarsi a loro, guardarle per poi riconoscerle e ridimensionarle, attraverso l’instaurazione di un rapporto d’astuzia con loro; l’uso, nell’immaginazione, di mezzi magici (o più semplicemente) può ridimensionarne la grandezza.

Altre strategie sono aiutarli se sono feriti, nutrirli ed alimentarli, prendersi cura di loro, cioè prendersi cura e tentare di integrare quegli aspetti d’ombra o quei nuclei conflittuali che ci spaventano tanto, ma che albergano nella nostra persona.

Importante in questi casi è il dialogo che si riesce ad instaurare con le immagini.

Infatti si può pensare di dialogare con loro, e più in generale con tutte le figure che si presentano.

La figura dell’accompagnatore è fondamentale: questa spiega la Kast è una figura “con la quale si intrattiene sempre un dialogo, coltivando un confronto interiore molto amichevole che ci dà la sensazione di non essere lasciati soli con i problemi della vita”. (Kast, V. 1997, pag. 87).

L’accompagnatore è spesso ambivalente, è portatore d’aspetti numinosi, come sinistri, proprio perché fa da ponte tra la profondità dell’inconscio e l’Io, contiene zone illuminate, ma anche zone d’ombra.

Gli accompagnatori possono essere coadiuvati da consiglieri, che rimandano all’archetipo del Vecchio Saggio e il percorso della Kast prevede proprio indicazioni precise rispetto al verificarsi di questo incontro.

Il Vecchio Saggio ha la funzione di portare il paziente verso la riflessione, la meditazione; ma, a volte, all’inizio esso può essere la voce di complessi materni o paterni, nascosti da consigli dettati da un banale buon senso.

“Si capisce che si tratta veramente di vecchi saggi dal fatto che danno un consiglio che a tutta prima appare insensato”. (Kast, V. 1997, pag. 99).

Proprio perché le soluzioni che nascono dall’inconscio sono quelle mai pensate dalla coscienza.

Un’altra forma di dialogo è che utilizza il corpo.

Secondo le indicazioni della Kast, quando si intende lavorare sul corpo, è necessaria una fase di rilassamento che miri a distendere una parte specifica e formare un’immagine della stessa. Con questa si può instaurare un dialogo. Se queste parti corporee assumono una forma antropomorfa, ciò sta a significare che il paziente non delega più il sintomo o il problema solo al corpo, ma compie un’integrazione corpo-mente.

Verena Kast propone inoltre un’altra tecnica, chiamata “viaggio nel tempo”: collocare esperienze in diverse prospettive temporali, permette di sviluppare una visione più distaccata e obiettiva della problematica, considerandone i risvolti, ridimensionandola, riuscendo ad ottenere così una visione meno inflazionata dalla sopraffazione emotiva.

Tutto il materiale immaginativo emerso attraverso l’uso di una o più delle tecniche sopra descritte va fissato attraverso il racconto all’analista o attraverso resoconto scritto. Si possono anche disegnare le immagini, oppure metterle in scena. Se ci si trova in una terapia di gruppo, le immagini evocate possono anche essere rappresentate attraverso tecniche psicodrammatiche.

L’intervento dell’analista in questa fase è fondamentale: a sua volta deve immaginare quanto riportato dal paziente, sia per registrare le risposte controtransferali, sia per cogliere quanto accade, non solo razionalmente, ma attraverso il sentimento.

La tecnica proposta da Verena Kast propone un tipo di immaginazione che non fa distinzione tra immagini mentali e immagini oniriche e per questo si colloca all’interno della cornice dell’analisi junghiana.

Per questo il lavoro inizia con la raccolta delle associazioni libere e la cui funzione è quella distabilire un legame tra le immagini e il contesto di vita del paziente.

Passaggio successivo è evidenziare il fatto che, spesso, il paziente ripropone con le figure dell’immaginario lo stesso stile relazionale che adotta con l’analista, sia con altre figure della propria vita.

Le immagini vanno poi amplificate per creare una connessione tra inconscio personale e inconscio collettivo, attraverso simboli storici e mitologici.

Quando la psiche individuale si scopre parte della psiche collettiva, la sua comprensione del mondo e le sue prospettive di vita non possono che mutare.

Poi si passa all’interpretazione che secondo Verena Kast deve soddisfare questi criteri:

–         il tema psichico va colto nella sua manifestazione attuale, nella sua declinazione all’interno della relazione analitica e nella sua espressione in forma di simbolo;

–         viene ricostruita la connessione tra immagine mentale, antecedenti biografici, situazione attuale;

–         viene stabilito un collegamento tra immagini individuali e immagini collettive, tra vicende psichiche del soggetto e le vicende della psiche collettiva. (Kast, V. 1997, pag. 77).

Questo tipo di immaginazione ci conduce verso la vera e propria immaginazione attiva junghiana. (continua)

Bibliografia

De Luca Comandini F., “L’immaginazione attiva”, in A. Carotenuto, Trattato di psicologia analitica, Torino, UTET, 1992

De Luca Comandini F., Mercurio R., L’immaginazione attiva, Milano, Vivarium, 2002

Jung C. G., Ricordi, sogni, riflessioni, a cura di A. Jaffè, BUR, Milano, 1992

Jung C. G., Analithycal Psichology: Notes on the Seminar given in 1925, Princeton University Press, Princeton, 1989 (Citazioni tradotte da Mercurio R.)

Kast V., Immaginazione attiva, Como, RED, 1997

Mercurio R., L’immaginazione attiva e la stanza dell’analista junghiano in Nella stanza dell’analista junghiano a cura di Maria Irmgard Wuehl, Milano, Vivarium, 2002

Mercurio R., L’immaginazione attiva come psicosi anticipata, in Psicosi e creatività, a cura di Ortoleva R., Testa F., Milano, Vivarium, 2003

Widmann C., Le terapie immaginative, Edizioni Magi, Roma, 2004

scritto da dott.ssa Maria Cristina Pacella

Il trauma infantile

Il dolore infantile nel mito

Vivevano e cominciavano ad adorarla come se fosse la dea Afrodite in persona. un tempo un re ed una regina che avevano tre figlie, una delle quali, Psiche, era di una bellezza così straordinaria che gli uomini restavano senza parole in sua presenza

Comicia così la favola di Eros e Psiche di Apuleio. Il dramma di Psiche ci porta direttamente all’interno del tema del trauma.

Psiche è l’immagine fragile dell’identità, è inflazionata dal desiderio degli altri, porta le loro proiezioni, ma la sua vera individualità non è emersa. Al di là della bellezza, all’interno è vuota e priva di un sé autentico.

Non è in grado di far fronte alla gelosia, all’invidia, all’inganno, non ha sufficiente fiducia in sé stessa, in ogni cosa che vive è in balia dei suoi persecutori. L’incontro con Eros non ha risanato la profonda ferita che è in lei, anzi la mette in una condizione di sottomissione nella speranza di essere riamata.

Sotto pressione si rifugia nella verità superficiale, perché ha la necessità di ignorare il profondo. Non può riconoscere l’amore se non lo vede, se non lo possiede con i propri occhi: questa è la resistenza, la protezione dalla verità inconscia, troppo terribile da guardare e tollerare. Eros chiede a Psiche di liberarsi da questi meccanismi difensivi, ma Psiche non ha alcun mezzo per affrontare questa richiesta: non può rinunciare a tutti quei meccanismi che le impongono di ignorare la propria sofferenza, nonché la realtà psichica dell’altro. (Thomas H, 2002)

DEFINIZIONE DEL TRAUMA

Quando la necessità di difendersi è più forte di ogni desiderio, di ogni slancio vitale, quando è lo spazio dell’amore e della fiducia che viene a restringersi, ci troviamo di fronte a ciò che avviene nel bambino che ha subito un trauma.

Il trauma, in questo lavoro, è da intendersi come qualsiasi esperienza che causa nel bambino una sofferenza o un’angoscia psichica intollerabile.

Un’esperienza si può considerare intollerabile quando soppraffà i meccanismi di difesa consueti che Freud definiva uno “scudo protettivo contro gli stimoli”. (Freud, 1920).

Questo può variare dalle esperienze di abuso ai ripetuti “traumi cumulativi” dei bisogni di dipendenza non appagati che nello sviluppo di alcuni bambini si sommano in un effetto devastante. (Khan, 1963).

L’autore teorizza che eventi o situazioni non eclatanti e che quindi potrebbero facilmente essere considerate non traumatici, possano determinare un effetto patogeno sul processo di strutturazione dell’Io se vengono considerati «retrospettivamente».

Kohut (1978) sostiene che eventi «brutalmente traumatici […] lasciano l’impronta in un numero minore di gravi disturbi del Sé, rispetto all’atmosfera cronica dominante, creata da atteggiamenti profondamente radicati negli oggetti-Sé».

Kohut ha definito questo processo angoscia di disintegrazione.

L’ipotesi di Kohut è in linea con quelle espresse dai teorici dell’attaccamento. Main e Hesse (1992) suggeriscono che la paura che alcuni genitori possono incutere nei propri figli sia alla base di una categoria dell’attaccamento definita «attaccamento disorganizzato /disorientato» che, in breve, avrebbe la sua radice in un paradosso che questi genitori suscitano nei figli: ci sarebbero due bisogni conflittuali (contemporaneamente attivi) del bambino, che non possono risolversi in termini comportamentali, cioè quello di essere accudito e quindi ricercare il genitore e all’opposto la necessità di evitarlo perché «fonte di pericolo».

Queste esperienze interattive tra madre e bambino, se il genitore non è stato «fortemente maltrattante», secondo gli autori, potrebbero non essere consce in età adulta. Main e Hesse scrivono che «l’ambiguità, la confusione e la paura che circondano tali osservazioni e interazioni, possono condurre la prole allo sviluppo di una rappresentazione che suscita paura e la cui fonte è irreperibile». Per gli autori la radice di queste paure non è reperibile poiché «la loro origine» non può essere direttamente associata ad una situazione traumatica, ma si colloca nel più ampio quadro della relazione tra caregiver e bambino.

Per Bowlby (1988), traumatica è l’esperienza non funzionale di attaccamento, che si evidenzia attraverso delle modalità di comunicazione alterate.

Sia la non-comunicazione che comunicazioni conflittuali potrebbero contribuire allo sviluppo di una psico-patologia.

Il bambino sembra sviluppare il proprio Sé anche in funzione del rapporto con l’immagine e le fantasie che di lui hanno i genitori o più in generale i caregiver. Quindi Bowlby offre in qualche modo un ponte di aggancio tra fantasia ed eventi reali, quindi una rilettura del trauma secondo un punto di vista che tenga conto soprattutto della relazione reciproca tra bambino e ambiente.

Secondo Stern (1985) l’avvenuta sintonizzazione da parte del caregiver fornisce al bambino l’informazione della comprensione e condivisione dei propri stati interni. In una situazione sperimentale, la volontaria mancata sintonizzazione delle madri, dal punto di vista del comportamento, espressa da risposte fuori tempo nel cullare i propri figli, causava l’interruzione dell’attività spontanea del bambino. Probabilmente il ritmo stabile fornisce al bambino prevedibilità e sicurezza.

Per Stern sembra quindi che ad essere traumatici non siano soltanto gli eventi, ma anche le alterazioni della sintonizzazione del sistema -bambino, ovvero la non comprensione e non condivisione, da parte delle figure di accudimento, degli stati affettivi del fanciullo. Una mancata sintonizzazione potrebbe corrispondere ad un fallimento nella comunicazione.

CONSEGUENZE

Da queste considerazioni emerge chiaramente che un bambino, che è stato vittima di traumi, dovrà affrontare un compito di adattamento di grande complessità.

E per fare ciò sarà costretto a mettere in atto un forte sistema di difese psicologiche.

Dovrà trovare un modo per creare i legami protettivi con le figure genitoriali che non risultano adeguate, a volte pericolose, purtroppo rinunciando ad una parte di sé.

Volendo utilizzare la teoria di Winnicott possiamo affermare che l’esposizione all’ angoscia traumatica esclude lo spazio transizio-nale, uccide l’attività simbolica e l’immagina-zione creativa e la sostituisce con quell’ attività che Winnicott definisce fantasticare ( Winnicott, 1971).

La fantasticheria è uno stato dissociato, una sorta di compromesso autoconsolatorio, che serve ad evitare l’angoscia.

Questo ci porta all’evidenza che nel trauma l’esperienza dell’emozione è troppo grande da sopportare, per questo è necessaria una scissione. Gli eventi e i loro significati perdono connessione, alle emozioni non è consentito acquisire una rappresentazione simbolica a livello mentale, sensazioni e stati emozionali non accedono alla consapevolezza, quindi non possono neppure essere tradotti in parole o immagini.

La dissociazione altera una realtà insopportabile, e permette contemporaneamente di salvare il legame primario con i genitori.

In una sorta di tentativo di sopravvivenza il bambino mette in atto tutta una serie di difese arcaiche come la dissociazione, le identificazioni proiettive, l’idealizzazione, l’ottundimento psi-chico.

Ciò porta alla costruzione di un Sé non autentico, che Winnicott definisce falso, Neumann chiama Io angosciato, e ciò sta a significare che una parte dell’io regredisce, e rimane incapsulata nel mondo delle difese arcaiche; mentre l’altra progredisce in fretta, come frutto di adattamento, ma non è autentica.

UN’ INTERPRETAZIONE JUNGHIANA

Donald Kalsched, in un’ interessante trattazione sul mondo interiore del trauma, ha definito questo processo di scissione come un sistema di autocura.

Egli afferma che questo sistema adempie a quelle funzioni di autoregolazione e di mediazione tra interno ed esterno che in condizioni normali vengono svolte dall’io attivo dell’individuo. Il problema è che questo sistema interviene in ogni relazione, disturbandola, dal momento che la psiche traumatizzata è auto-traumatrizzatrice, poichè il trauma continua nel mondo interiore della vittima.

Inoltre la vittima di un trauma psicologico si trova continuamente in situazioni, nelle quali si trova di nuovo traumatizzata. Nonostante la volontà di cambiare, una sorta di potenza diabolica la tiene in scacco.

Ci troviamo di fronte all’archetipo del Briccone, che Jung definì una sostanza associata con gli inferi e il diavolo, la figura scaltra e infida del briccone alchemico o Ermes/ Mercurio. Una figura doppia fonte di guarigione come di distruzione.

Capace di introdurre dolore e morte in un mondo paradisiaco, allo stesso tempo capace di un gran bene. È una divinità che può dissociare e associare immagini, può legare le cose o separarle. È un protettore ed un persecutore allo stesso tempo. È una sorta di possessione da parte di uno spirito che deve essere liberato, con tutta l’energia che ha insita, per poter passare da un Sé di sopravvivenza ad un Sé individuativo.

INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO

Il tema del trauma infantile è stato oggetto di interesse negli ultimi anni soprattutto in riferimento al Disturbo Post Traumatico da Stress e al Disturbo di Personalità Borderline.

Il disturbo post-traumatico da stress si caratterizza per un quadro sintomatologico che fa seguito ad un episodio traumatico o ad una serie di eventi traumatici collegati.

L’evento comporta una minaccia alla vita, all’integrità della persona e travalica le capacità individuali di far fronte alla minaccia.

Compaiono di solito, in seguito tre raggruppamenti sintomatologici:

a) risperimentazione del trauma

b) evitamento ed appiattimento delle risposte

c) iperattivazione.

I criteri per valutare un PTSD in un bambino devono tener conto di molti fattori, quali la personalità del bambino, la capacità del genitore di sostenerlo ed aiutarlo ed il modo in cui il bambino elabora l’esperienza.

Devono essere presenti i seguenti sintomi:

  • l’evento traumatico riemerge attraverso gioco post-traumatico che ripropone il trauma, incubi, manifestazioni di angoscia, episodi dissociativi.
  • Appiattimento della sensibilità del bambino
  • Aumento dell’attivazione
  • Paura e aggressività

I principali deficit riscontrati in vittime di trauma sono:

  • relazioni interpersonali difficili sia con i coetanei sia con i caregiver
  • difficoltà nella regolazione affettiva
  • difficoltà nello sviluppo del sé in particolare nell’area della comprensione del sé, dell’efficacia personale
 PATOLOGIE LEGATE AL TRAUMA

Lo studio dei pazienti che presentano un disturbo di personalità borderline confermano che in questi soggetti possano essersi verificate esperienze traumatiche nell’infanzia

I risultati delle ricerche mostrano che l’esperienza del trauma nell’infanzia assuma una considerevole fisionomia nei disturbi di personalità, in quelli psicotici, somatoformi e depressivi.

I sistemi di difesa sono per lo più arcaici, i sintomi depressivi risultano elevati, i conflitti emotivi vengono manifestati somatica-mente e non verbalmente.

Si possono inoltre riscontrare rigidità adattiva, suscettibilità, meticolosità, disinteresse per le persone, scarsa autostima, un precario legame con la realtà.

 BIBLIOGRAFIA
  •  Ammaniti M., Manuale di psicopatologia dell’infanzia, Raffaello Cortina editore, Milano, 2001
  • Kalsched D., Il mondo interiore del trauma, Moretti e Vitali, Bergamo, 2001
  • Infrasca R., Accadimenti nell’infanzia e psicopatologia dell’adulto, Magi, Roma, 2003
  • Lewis Herman J., Guarire dal trauma, Magi, Roma, 2005
  • Marcelli D.,Psicopatologia del bambino, Masson, Milano, 1999
  • Ogden T. H., Il limite primigenio dell’esperienza, Astrolabio, Roma, 1992
  • Thomas H., Il dolore infantile nel mito, Magi, Roma,2003

scritto da dr.ssa Maria Cristina Pacella

Che cos’è la paura?La paura, emozione primaria di difesa.

Che cos’è la paura? La paura è un’emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo che può essere reale, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia. La paura è spesso accompagnata da una reazione organica che prepara l’organismo alla situazione d’emergenza disponendolo, anche se in modo non specifico, all’apprestamento delle difese che si traducono solitamente in atteggiamenti di lotta o fuga. (Dizionario di Psicologia di Galimberti) .

Sigmund Freud, padre della psicoanalisi distingueva tra: la paura che “richiede un determinato oggetto di cui si ha timore”, dall’angoscia che “indica una certa situazione che può essere definita di attesa del pericolo e di preparazione allo stesso, che può anche essere sconosciuto”, e dallo spavento che “designa invece lo stato di chi si trova di fronte a un pericolo senza esservi preparato, e sottolinea l’elemento della sorpresa” (1920, pag. 198 Freud S., “Al di là del principio di piacere”).

Nel bambino piccolo alcune paure devono essere considerate parte integrante del normale processo evolutivo in quanto hanno, in genere, un carattere transitorio e non interferiscono significativamente con lo sviluppo psicoaffettivo: paura del nero, dei piccoli animali, degli animali che mordono, degli estranei, dei fantasmi o degli orchi.

Le paure dei bambini si differenziano spesso a seconda della fascia di età.

Nella prima infanzia le paure più frequenti sono quelle dell’abbandono, dei temporali, dell’acqua, dell’uomo nero. In seguito in età prescolare e scolare: del buio, della notte, del dottore, degli animali, della scuola, ma anche in alcuni casi della morte e delle malattie.

Diversamente dalla paura, la fobia è un timore irrazionale, ingiustificato di un oggetto o di una situazione, il contatto con i quali determina nel soggetto un’intensa reazione d’angoscia. La fobia si distingue dalla paura perché, a differenza di quest’ultima, non scompare di fronte a una verifica della realtà. Da un punto di vista evolutivo, ciò che si osserva nella persona con organizzazione fobica è un blocco nei confronti del comportamento di esplorazione. La fobia si costituisce quando la paura invade l’Io del bambino ed ostacola le sue capacità adattive ed evolutive.

Nella maggior parte dei casi, verso i 7-8 anni, le fobie si attenuano o scompaiono almeno in apparenza. Sembrerebbe indiscutibile che l’atteggiamento dell’ambiente circostante ricopra un ruolo preponderante nella fissazione o meno di queste condotte. I fattori che sembrano influire negativamente possono riguardare l’assenza emotiva della madre che sollecita nel bambino l’ansia di separazione, mentre quella paterna tende ad agire maggiormente sull’insicurezza.

Altro tratto implicato nelle personalità fobiche è l’iperprotettività della madre associata alla paura di dormire da soli, mentre quella paterna appare correlata ai mostri e agli animali.

Il comportamento iperprotettivo dimostra così di ridurre gli spazi di autonomia e di crescita del bambino, ancorandolo a uno stato di costante insicurezza e dipendenza, fisica ed emotiva, che non permette il distacco dalle figure rassicuranti, ed esaspera l’ansia di separazione. È necessario valutare di fronte a tali comportamenti che si tratti di uno stato transitorio e legato ai processi evolutivi, e che non siano invece stati di fobie croniche, sintomi e precursori di quadri patologici più complessi.

Maria Cristina Pacella

Psicologa clinica-psicoterapeuta psicodinamica